Recensioni “Carne della mia carne”
Paola Baratto è una scrittrice tanto vera quanto sconosciuta. Di carta e di luce, edito nel 2001 da tale Zanetti, era un romanzo originale quanto perfetto, davvero da caso letterario nelle sue dinamiche di parabola fanta-sociologica. Le altre opere brevi della Baratto – tre – ci hanno offerto un ulteriore assaggio delle sue potenzialità non certo provinciali o appartate. Questo allegorico, delirante Carne della mia carne (Manni, pp. 255, euro 17) reca impresse le stigmate memoriali di certi film-apologo di Buñuel o del nostro Marco Ferreri. Pur non raggiungendo i vertici di bellezza strutturale e stilistica del compiutissimo Di carta e di luce, questa storia cupa e attuale – nonostante la nebbiosità costante dell’ambientazione – si fa leggere come un omaggio alla grande letteratura, al piacere di scavare nel profondo dell’animo umano alla ricerca di deviazioni e paradossi, quasi una sorta di scommessa che recupera – anche – certi virtuosismi diabolici di un Landolfi.
Angelica Brume, Gregorio Labrusca e Marco Schiava sono tre laureati precari dei giorni nostri. Citati quasi sempre solo con il cognome, diventano oggetti d’utilità temporanea anche agli occhi del lettore, in una società estranea, scostante e senza troppe occasioni di carriera. L’occasione – temporanea anch’essa ma ben presto determinante – è dettata da una collocazione – abitativa e lavorativa – presso una vecchia villa fatiscente in cui opera, in regime d’affitto, un ex-contabile di mezza età – Pietro Malbec – che, riciclatosi nell’arte della cucina, ha impiantato una attività di catering al servizio di famiglie benestanti della città, peraltro nebulosa e sfuggente come l’ideale scenografia della precarietà e dell’indifferenza.
Su un altro versante impera la famiglia Almonte, con il vecchio e solido capostipite Oliviero che domina sui parenti – figli e nipoti – con le redini dell’uomo che si è fatto da sé e ha costruito una fortuna con l’impronta del suo marchio in tutte le attività produttive della zona. Almonte adora i banchetti della domenica in cui impone ai familiari le sue bizzarre e predilette specialità culinarie. Vive come un re in declino e sente affondare il tempo sotto i piedi. E’ ricco e potente, perciò non può morire come un uomo comune. Vuole, in sostanza, lasciare qualcosa di sé «dentro» ciascuno dei suoi numerosi e spesso ingrati parenti.
Ecco, collegate i banchetti della domenica, l’attività di Malbec, la precarietà bisognosa dei tre laureati senza futuro, un’offerta di denaro che metterebbe a posto parecchie lacune economiche, e il pranzo è servito. L’apologo di Paola Baratto è preciso e sarcastico, amaro, nel delineare una società tronfia e opulenta che si nutre di se stessa, e allo stesso tempo offre uno spunto di riflessione – in questo caso uno «spuntino» – sull’incertezza di queste nuove generazioni che si svegliano ogni mattina già sapendo che il disagio è lì ad attenderle. Un romanzo necessario come metafora del presente, la conferma di una scrittrice in attesa di giudizio, che merita ben più del precariato in cui finora lei per prima stata confinata.
(Sergio Pent – Tuttolibri La Stampa)
Piacevole ed inquietante, lineare ed intricato, illuminante ed enigmatico. L’ultimo romanzo di Paola Baratto forse si può affrontare solo con una teoria di ossimori. Ed in questo gioco di luci e ombre si può cogliere il nuovo passaggio che l’autrice bresciana compie nella sua lettura del mondo odierno. La Baratto non si smentisce: più che costruire trame le smonta, più che sciogliere nodi li intreccia. Ed il finale chiude una storia e spalanca un orizzonte.
La vicenda intesse quotidianità e aspetti un poco assurdi, com’è nello stile dell’autrice… Due righe e si entra in un mondo. Quello di un gruppo di studenti in cerca di equilibri meno precari: gli esami da finire, la tesi da preparare e una serie di impieghi «a progetto» che non vanno mai oltre qualche mese. L’appartamento dove abitano è della zia di una loro amica, che vorrebbe venderlo. E a loro viene rivolto l’inequivocabile invito di «guardarsi in giro». Un annuncio sul quotidiano locale li porta ad una vecchia villa con giardino, dove la periferia della città stempera caratteri d’epoca con l’insipida modernità edilizia. Angelica Brume, Gregorio Labrusca e Marco Schiava diventano coinquilini di Pietro Malbec. Ex bancario deluso dalla vita, «sguardo diretto e curiosità tortuose», uomo «di pochi principi, ma di molti precetti» Malbec offre, con l’alloggio, anche l’opportunità di un lavoretto, preparare spuntini e piatti per ricevimenti e banchetti. A trovare clienti li aiuta Loretta Brancaia, ex amante di Malbec e rampante organizzatrice di eventi cultural-mondani.
Un capitolo… ed eccola «attovagliata» la famiglia Almonte, chiamata a raccolta da Oliviero, re di una catena di supermercati, ma con mire anche su radio e televisione, cultura e edilizia… Sono ritratti in una serie di «medaglioni», attorno al tavolo per il banchetto domenicale che il capo impone almeno una volta al mese. La figlia Amaltea con il marito, avvocato e deputato. I figli: Achille il prudente e Ares lo sportivo. Le nuore: Fernanda l’invadente e Verdiana la procace. Le nipoti: Artemide e Lucrezia. E l’onnipresente segretario, Virginio Sparvo: grigio e untuoso, fedele e insidioso. Forza dei nomi scelti come presagi.
Un banchetto… Ed è questo il perno dell’intera vicenda. Oliviero, che avrebbe sognato una vita da studioso, costretto dalla repentina prematura morte del fratello a farsi carico dell’impresa di famiglia, osserva cinico e distaccato le diverse forme d’appetito dei suoi convitati. E progetta la beffa finale: si farà cucinare e si darà in pasto ai parenti.
Tutto il racconto è la preparazione di questa «sfida» finale. I «ragazzi della villa» che si appassionano alla nuova attività di catering, cercando così di sfuggire alla precarietà incombente. Almonte che li contatta e li «prova» con manovre inesorabilmente avvolgenti. E poi la proposta, assurda e agghiacciante. Che il tempo e le singole vicissitudini fanno diventare accettabile…
Nessun cedimento a toni crudi: non è l’orrore che interessa, ma la corrosiva, iperbolica metafora che la sfida contiene. E l’enigma può avere più di una lettura. Certamente è emblematico di questa società che con una serie di micro-precarietà mina le sue stesse fondamenta. È simbolo di una stagione che porta le generazioni a dilaniarsi l’un l’altra. Ma è il segno che anche l’imprenditore senza scrupoli si sente «cannibalizzato», al punto da decidere di darsi in pasto, materialmente, alla sua onnivora tribù.
Scrittura limpida e vivace, ritmo narrativo sempre piacevole, capacità di affrontare argomenti «ributtanti» con una lievità invidiabile. Sapendo persino giocare sul tema: i nomi dei protagonisti sono tutti di ispirazione vinicola e i dettagli gastronomici mostrano una competenza dell’autrice che i lettori delle pagine culturali del Giornale di Brescia già hanno potuto apprezzare. Paola Baratto ci offre così un altro sguardo acuto sul mondo. Seguendo un percorso che da La cruna del lago a Finisterre, da Di carta e di luce a Solo pioggia e jazz mostra una capacità di lettura profonda e impietosa della nostra complessa realtà. Nel segno della novità e della continuità.
(Claudio Baroni – Giornale di Brescia)
Oggi ad “Achab – Libri in onda”, “Carne della mia carne”: romanzo profondo e paradossale di Paola Baratto
Si intitola “Carne della mia carne” il romanzo pubblicato per Manni editori dalla scrittrice bresciana Paola Baratto.
Si tratta di una storia paradossale, ferocemente ironica, da leggere tutta in chiave metaforica. Protagonista della vicenda, nata dalla fantasia della scrittrice, è Oliviero Almonte, un uomo che possiede qualunque cosa – denaro, potere, agi, discendenza – ma che non può fermare l’inevitabile, la sua fine. Così, di fronte ad una precarietà dell’esistenza che non risparmia proprio nessuno, Almonte finirà per immaginare di tramandarsi attraverso un banchetto che avrà per piatto forte la sua stessa carne.
Quel che resta – attraverso le 250 pagine del volume – è un malinconico, ma anche grottesco senso della fragilità e precarietà della vita. Una riflessione sui tanti inutili idoli che ci costruiamo o che ci vengono costruiti nel corso della nostra esistenza.
Maria Grazia Capulli – Tg2 Achab Libri in onda (20 giugno 2007)
Una scrittura che sa offrire scorci atmosferici densi e accurati: «Quell’anno giugno fu un mese di splendore senza riserve. Un’esplosione di lucentezza, un vento che spazzava le foschie, un azzurro così carico da sembrare di pietra».
Una scrittura che scandaglia con rapidi tagli certi complicati rapporti parentali: «Sua madre l’aveva tirata su come si alleva un rancore. Inacidendo ogni volta che la vedeva».
Che abbozza complicati profili psicologici: «Malbec era un uomo di pochi principi, ma di molti precetti».
E che accarezza le corde dell’ironia in tante descrizioni, come quella di una dama ingioiellata: «Alle dita le brillavano i traguardi d’un matrimonio lungo e riuscito».
Una scrittura come questa è già uno stile, racchiude una poetica, fonda una narrativa. Una scrittura come questa è il dono che studio e natura hanno fatto a una scrittrice bresciana, Paola Baratto, che per l’editrice Manni ha dato recentemente alle stampe il suo quinto romanzo, Carne della mia carne (pp. 256, euro 17). Se nei romanzi precedenti la sospensione, l’attesa, il «pianissimo» erano i tempi del racconto, stavolta nella trama del romanzo si inserisce la cifra del grottesco, con riverberi surreali e persino granguignoleschi. A orchestrare la materia c’è, appunto, l’ormai inimitabile stile della scrittrice: una bravura che sconfina nel virtuosismo, si attesta al di qua del confine della maniera, maneggia gli sguardi e le parole con sovrana sapienza, affronta anche le trame e le situazioni più impervie.
Carne della mia carne alterna e intreccia le vicende di due gruppi umani fra loro apparentemente remoti. Da un lato un gruppo di giovani di belle speranze e poco successo, che condividono un appartamento e le angustie di lavori precari. Dopo un nuovo trasloco finiranno per abitare – e collaborare, e in un caso amoreggiare – con Pietro Malbec, un ex contabile espulso da una banca per eccesso di scrupoli, un solitario che sulla soglia della maturità si reinventa cuoco di un catering domestico e, naturalmente, in nero.
Dall’altro canto c’è la famiglia Almonte, proprietaria di un’arrembante catena di supermercati e di molto altro, dominata da un patriarca-padrone. Sotto di lui un corteo di figli, generi e nipoti in cui non è difficile riconoscere i «tic» di tante persone arricchite, e che Paola Baratto trasforma in una galleria di ritratti sulfurei.
Un ponte fra questi due mondi viene gettato prima da alcuni personaggi minori, poi da un intreccio che sfiora il pulp. Oliviero Almonte, aduso ad affliggere i convitati dei suoi banchetti domestici con sofisticate pietanze a base di frattaglie e parti molli delle bestie macellate (cervella al limone, coglioncini fritti, midollo di ossibuchi, lingua salmistrata, crostini con milza: nulla viene risparmiato ai commensali), concepisce infatti un disegno surreale: imbandire nel proprio banchetto funebre, all’insaputa degli ospiti, il proprio corpo variamente cucinato. A spingere il patriarca a questa decisione c’è una somma di motivazioni: l’orrore per l’inumazione, lo sberleffo estremo a una coorte di parenti avidi e ingrati, qualche rimando ai rituali cannibalici degli indigeni del Sudamerica, un sapido desiderio di eternazione, l’estrema affermazione di un’invadente presenza sia pur per via gastrica e digestiva. L’ex contabile-cuoco e i ragazzi che con lui collaborano sono naturalmente i prescelti per l’impresa, che sfocia in una serie di dilemmi e colpi di scena fino allo scioglimento finale, che qui possiamo solo lasciar pregustare.
Il lavoro di Paola Baratto sul testo e sulla parola ricorda quello di certi intarsiatori di pietra: mani esperte che levigano il loro materiale con attrezzi e sostanze abrasive via via più fini, sino ad arrivare all’impalpabile polvere di osso che assicura l’ultima politura, l’estrema lucentezza. Il risultato, nel testo della Baratto come nei tasselli degli intagliatori, è identico: disegno nitido, accostamenti che intrigano, iridescenze che seducono.
(Massimo Tedeschi – Bresciaoggi)