Origami tra le nuvole: il racconto
“Origami tra le nuvole”
Per lungo tempo ho vissuto come se non ci fosse.
Una figura di polvere,
lunga, breve, silente.
Si muove, si posa…
leggera e puntuale quanto un respiro. Talmente presente da farsi dimenticare.
M’accompagna, senz’altro scopo che replicare i miei gesti. E mi somiglia quanto uno schizzo.
Cos’altro ci si potrebbe aspettare, da un’ombra?
Ma in un giorno d’aria bollente, pressato da un cielo di rame, ti accorgi che le case scivolano al suolo e simulacri di tenda tracciati dai tetti ti vengono incontro. Li cerchi ovunque, rasentano i muri come fossati vaporosi, sboccano dagli usci, vividi e freschi quanto l’offerta di un’acqua alla menta.
E ti sembra una scoperta, anzi, la rivalsa di ciò ch’è rimasto ignorato. Come quando un bambino timido ha finalmente espresso un talento.
È da un giorno come quello che ho preso a interessarmi all’ombra delle cose. A farci caso.
Statuarie o danzanti, alcune serbano un aspetto misterioso, altre alludono a curiose fantasie.
Ognuna sollecita immagini distanti. Quel che una sedia proietta a terra è altro dalla sedia stessa…
E quella grande infiorescenza di china, rovesciata ai piedi del tiglio in cortile? Basta una giornata di pioggia, un’ala di nuvola e si diluisce in acquerello.
L’estate le ridà mordente e mi sorprendo ad osservarla, più della chioma che la sovrasta.
Così come non mi soffermo sulla griglia rugginosa del portoncino bensí sul fitto arabesco, disteso a terra come una stuoia. Verrebbe voglia di staccarlo dal suolo, il chiaroscuro della sua trina,
e tenerlo sollevato come una finestra, moucharabieh attraverso cui scrutare un mondo traboccante di luce.
Ma poi… accanto a me, vedo la mia, di ombra.
E mi sembra un orlo scucito scivolato sotto le scarpe, un informe vestito a rovescio appeso al muro.
Qualcosa d’indolente, senza nerbo.
Cammino e fa il verso alla mia andatura incerta, ai movimenti sgraziati.
Nel suo trascinarsi, noto il mio passo lento, impacciato.
È appesantita dal mio stesso peso,
intorpidita dalla prigionia d’una vita che l’avvince ad un corpo di carne, di ossa, di fatica e umori bui.
Non mi è più così semplice, adesso, dimenticare la sua presenza.
Sembra uno di quei tristi fantasmi reclusi in un luogo, di cui si parla in certe leggende.
Se solo potessi scioglierla da quel vincolo, da quella condizione gregaria di vestale…
Vorrei farne, magari, qualcosa di bello. E, talvolta, ci provo, e muovo le braccia,
tracciando linee e cerchi, disegnando il muro o il suolo come un artista di strada.
Ma come m’arresto… lei si ferma,
inguaribilmente fedele.
Mi domando se potrei risarcirla. E, a volte, la conduco negli orti, lasciandola macerare tra erbe aromatiche,
per riportarmela via in uno sciame odoroso,
circonfusa di menta e di timo.
Peccato che presto svanisca…
Mi piacerebbe colorarla, la mia ombra. Per lei sceglierei scatole di pastelli o pennelli intrisi di luce e di nebbia.
Se per sua natura dev’essere buia, che abbia almeno tutte le sfumature d’una notte che non escluda le fiamme fredde di un’aurora boreale, il rossore che preannuncia la neve, il pulsare d’una manciata di lucciole.
E poi immagino di renderle, finalmente, la sua leggerezza…
Sollevandola dal suolo come una figurina di carta,
un origami da tenere un istante tra le dita, prima che una brezza, soave come quei venti dal nome di passito, se lo porti via.
O le direi “sciò sciò″, ma con allegria. E resterai a seguirla con il naso all’insù,
mentre sfiora il cotto degli embrici, come un’ala di colombo,
finalmente padrona della vertigine e della saggezza delle sommità.
Si dice che vedere dall’alto sia la giusta distanza.
Se è così, vorrei che la mia ombra riuscisse a ridere della nuca delle statue sulle cupole e di tutta la bellezza che al di sotto ci sgomenta.
E solo allora sarebbe in grado di ardire all’indaco crepitante dei temporali,
che rabbuiano il mosaico dei campi, arruffano il crine di schiuma dei cammelli marini.
Ma prima o poi dovrebbe atterrare. E sporcarsi un po’ in una pozzanghera, scottarsi insieme alle lucertole sulle pietre.
Se davvero potessi darle libertà, vorrei che attraversasse quello spazio inconoscibile e saturo di sapienza che c’è tra le ombre e le cose.
Come le rovine e i ceppi, ch’erano state palazzi o querce imponenti e avevano entrambi riflessi che ingigantivano al tramonto e che ora rattrappiscono tra ortiche vittoriose.
E vorrei che visitasse tutti quei luoghi eternamente morenti dove albergano, come fossili solenni, verità sublimi e spietate che hanno età di secoli e ci illuminano in un lampo.
Non mi dispiacerebbe, certo, che ogni tanto la mia ombra tornasse, risonante di tutte le piogge della terra, di ottoni sfavillanti, di fragori di ghiacciai e di risate.
Me la immagino ebbra e infangata, graffiata dalla ruvidezza del mondo e dalla sua poesia,
strofinarmi addosso odori speziati che non conosco e che non potrei più dimenticare.
Vorrei riaverla accanto, ma regina della sua leggerezza.
E mi basterebbe un soffio per sospingerla via.