Recensioni “Malgrado il vento”

Già in Giardini d’inverno (2014) e in Tra nevi ingenue (2016) Paola Baratto aveva sperimentato con efficacia la struttura narrativa che ora ritorna nel suo Malgrado il vento (Manni, pagine 80, euro 12,00). Più che una tradizionale raccolta di racconti, è una serie di storie concatenate l’una con l’altra, quasi a formare un romanzo in frammenti. Ad aumentare il fascino di questa particolare costruzione contribuisce il fatto che, a dispetto dell’attenzione riservata a ciascun personaggio, il lettore rimane con l’impressione che al centro del libro si annidi uno spazio vuoto, incolmabile e magnetico.
In Malgrado il vento questa funzione è inizialmente svolta dal piccolo supermarket nel quale la giornalista Marta si avventura appena trasferitasi nel quartiere che fa da scenario ai racconti. Rispetto a questo microcosmo di volti che si riconoscono per strada e di destini che si rincorrono in modo spesso inconsapevole, il negozio gestito giorno e notte dall’inamovibile Adelmo costituisce un ulteriore esperimento di contrazione nello spazio e, in un certo senso, anche nel tempo. Passata di mano la gestione, la forza centrifuga cerca di prendere il sopravvento, ma ormai tra gli abitanti della zona si è stretta un’alleanza silenziosa, in virtù della quale il vedovo Aldo si ritrova a frequentare con assiduità il bizzarro studio di podologia che l’indecifrabile Fernanda ha avviato nell’appartamento della madre. Un altro rifugio, un’altra comunità spontanea che, anziché muoversi tra gli scaffali illuminati dal neon, passa ore e ore in attesa delle prelibatezze portoghesi dispensate dalla padrona di casa. Il cibo svolge un ruolo importante nei racconti di Baratto, autrice anche di numerosi romanzi pubblicati dalla stessa Manni. Lilli, una delle figure più struggenti tra quelle evocate in Malgrado il vento, invita i passanti a mangiare un trancio di pizza come se li stesse introducendo a un banchetto, ma c’è anche una donna schiva ed elegante che segretamente nutre un gatto randagio. Passioni semplici, il più delle volte, ma sempre pronte ad assumere carattere di assolutezza. Assoluta è la dedizione di Alberto per la bellezza, che per suo tramite diventa qualcosa che si può vendere (ma non per questo comprare). E assoluta è la determinazione con la quale uno dei clienti di Elio, che di mestiere sgombera cantine e solai, ha archiviato le immagini della sua esistenza, fino al giorno in cui decide di disfarsene completamente, con un altro gesto di assoluta abnegazione. Anche Ada è una cercatrice di assoluto, che per lei si manifesta nell’essenzialità delle fotografie bianco e nero: «Senza il corredo cromatico – annota Baratto -, al primo sguardo alcuni oggetti altrimenti banali risultavano misteriosi». Da questa improvvisa indeterminatezza si sprigiona la possibilità di raccontare, o magari di essere raccontati. Un’ambiguità sulla quale gioca Tomas, l’ultimo (o forse il primo) dei personaggi a entrare in scena nel libro. Scrittore, si proclama capace di comporre ritratti fatti solo di parole e si mette a disposizione di chi voglia dettare la propria autobiografia. Le sue intenzioni restano un enigma, ma non è azzardato ipotizzare che c’entri il vuoto e c’entri l’assoluto, come sempre accade quando l’enormità del mondo si comprime in accadimenti minimi.

(Alessandro Zaccuri – Avvenire)

Si può “fare il filosofo” a svuotare cantine. Come Elio, che osserva affascinato i molti modi, ma in fondo sempre gli stessi, che le persone hanno, nel lasciare che gli oggetti si affastellino nei sotterranei della vita, quasi a voler rinviare il momento di “dover ammettere che quelle cose che un tempo avevano avuto un senso ora non lo avevano più″. Oggetti, attimi e racconti che resistono. “Malgrado il vento”, come dice il titolo del volumetto che Paola Baratto offre, fresco di stampa, per l’editore Manni (80 pagine, 12 euro; e-book 6,99).
Non inganni la dizione di copertina: non sono soltanto “racconti”, sono sguardi su un affresco unitario, dedicati ad altrettanti personaggi, legati da un filo invisibile che si allaccia e si scioglie, e che li unisce nel vecchio quartiere, senza che neppure se ne rendano conto. Paola Baratto riprende il Calvino de “Le città invisibili” nel tessere quel filo che “allaccia un essere vivente ad un altro… cosicché a ogni secondo la città infelice contiene una città felice che nemmeno sa di esistere”.
Ha una musicalità particolare, questo volumetto. Vibrazioni e luci da cogliere. Un tono “francese”, verrebbe da dire, capace di narrare lo stato d’animo delle persone mentre nulla sembra cambiare proprio quando la vita ne viene stravolta. Sa rappresentare il mutamento profondo della quotidianità nel ripetersi sempre uguale. Paola Baratto, scrittrice dalla penna levigata e acuta (i lettori del nostro giornale la conoscono anche per i suoi elzeviri), accanto ai romanzi con i quali ha sondato i nervi scoperti del nostro tempo, già nei racconti di “Giardini d’inverno” e di “Tra nevi ingenue” aveva mostrato la sua abilità nei ritratti, nelle storie distillate in poche pagine. In “Malgrado il vento” ora mette in scena i suoi tredici personaggi nello stesso quartiere, li osserva mentre si passano accanto, più che incontrarsi, e diventano specchio reciproco l’uno dell’altro. La vecchia dimora sta dirimpetto al condominio sciatto, mentre Eugenio cerca il “piacere di passare tra muri vecchi e sbrecciati”. Berto, l’ingegnere, si ferma a leggere il giornale sul ponte a scavalco d’un vecchio canale, come per restare “a metà di qualcosa”. Giulio si appunta l’ora e il luogo, e la luce dell'”istante perfetto”, seduto al bar dell’angolo ad osservare “un corteo ininterrotto di persone inquiete”. Se ne va l’auto di Veronica, elegante signora, che cerca di lenire le pene di donna abbandonata dal suo gatto.
Ognuno ha il proprio segreto. Aldo, l’avvocato rimasto vedovo, portando a spasso il cane, scopre quanto poco conoscesse sua moglie. E giunge nel salone affollato di Fernanda, che offre polpette di baccalà (alla portoghese) a chi passa nella sua coloratissima casa. Natalia, gardiniera abusiva, coltiva ortensie. Attilio offre vedute di bellezza. Ada scatta istantanee in bianco e nero che sanno trasformare in poesia anche la spazzatura.
Un mondo intero ruota attorno al piccolo parco e si incontra al minimarket di Adelmo, come osserva Marta, la giornalista. Ma ora sono arrivati i cinesi e la composita schiera che lo frequenta non ha più ragioni per soffermarsi, neppure Lilli che parla da sola e sembra sempre in cerca di una preda. Ciascuno ha una sua storia da raccontare, se si ha la pazienza di ascoltarle, come fa Tomas, lo scrittore spuntato dal nulla. “Non c’è letteratura nei racconti della gente”, spiega, dietro le lenti scure, mentre aggiunge che la sua “è una pesca da strada, senza lenza e senza fatica, che compiace chi si fa prendere all’amo” e che “sono le persone stesse, del resto, ormai largamente arrese alla tentazione di narrare di sé, a fornire il pretesto e l’occasione”. Tomas si propone per scrivere ritratti, anche biografie per chi è più generoso. Per lui conta più il non detto: quanta poesia nelle omissioni. Cerca sempre “la smagliatura nella trama tersa”. Convinto che “letteratura non è ascoltare la storia che vi è scritta, ma percepire quell’odore. Vedere il colore delle parole, per quanto sbiadite. Riconoscerne i suoni differenti e le potenziali risonanze”. C’è una dichiarazione di principio nelle sue parole: “Sono tuttavia quello che continua a vedere i colori malgrado il vento abbia snudato da tempo le fronde”.
Anche per Paola Baratto è così: la scrittura, la letteratura, “malgrado il vento”.

(Claudio Baroni – Giornale di Brescia)

Di Paola Baratto mi garba la sua appartata disappartenenza. Non ha etichetta, non è omologabile, se non a Paola Baratto. Emula di Jack Frusciante, è uscita dal gruppo, è una fuori serie che obbedisce ai suoi dèmoni creativi e disdegna le logiche del mercato editoriale quanto i salotti buoni che emettono certificati di gradimento come green pass. Esercita la scrittura con quella vocazione irreversibile, con quella antica sapienza di un’arte di bottega in cui la qualità del lavoro è direttamente proporzionale alla durata del tempo. Perché ci vuole tempo per scrivere e la letteratura non è assimilabile al taylorismo della fabbrica. Le parole hanno un peso, anche quando sono leggere. Perché le parole sono importanti (Nanni Moretti dixit), hanno un pensiero da trasmettere, che non va svilito o adulterato, sono anticorpi di civiltà contro il partito trasversale degli ignoranti, proprio per questo vanno sottoposte a manutenzione etimologica, bisogna prendersene cura semantica.
Paola Baratto è una accordatrice di suoni – non a caso la poesia è musica – e una recuperante di attimi larghi. In un mondo in cui il troppo di tutto nasconde il vuoto, lei ci propone uno stile asciutto, scolpito fino all’osso, ma fecondo di immaginazione. Racconta la vita degli altri, quelle storie minime che magari preferiamo non guardare, che la vulgata definisce insignificanti o che il sistema mediatico tende a silenziare perché conoscerle potrebbe provocare un disturbo, un ripensamento. E la sua maestria sta nel rendere visibile anche il fuori quadro, il non detto di queste vite da niente.
“Malgrado il vento” (Manni, pp. 74, euro 12,00) è il titolo della sua terza silloge di racconti, tredici per l’esattezza. Lo scenario è un quartiere e protagonisti sono un manipolo di abitanti consegnati alle loro abitudini e ai loro “luoghi comuni”, nel senso di spazi condivisi. Una piccola comunità, personaggi in cerca di scrittore, una sorta di compagnia teatrale irrituale, un vetrino di umanità. Si incrociano, si parlano, si evitano tra il minimarket di Adelmo, che sta per passare ai cinesi, la strada e il parco. Aldo si accorge che il cane Camillo ha lo stesso sguardo della moglie appena scomparsa e fa una scoperta che gli buca l’orizzonte; Fernanda, pedicurista portoghese, gestisce un salone ch’è un social carnale e non virtuale, dove l’empatia, la chiacchiera e una polpettina di baccalà fanno rima con relax; Attilio è un contrabbandiere di bellezza con i suoi haiku rivolti ai frettolosi viandanti; Veronica è una gattara che ha bisogno di donare il suo amore; Berto un solitario che trova la sua confort zone su un ponticello, che è una sorta di intercapedine temporale sospesa: Giulio è un collezionista di istanti; Elio sgombera cantine ed è un filosofo del sottosuolo, un archeologo del dismesso nella postmodernità del consumismo unico dio; Natalia, colf e badante, non ha una casa, in compenso un giardino abusivo; Lilli ha bisogno di intercettare le persone per sentirsi viva; Ada è una fotografa che pensa che il bianco e nero sia meglio della tavolozza dei colori; Eugenio, un uomo che coglie la potenza discreta dell’eternità nell’urbanistica della città. E poi c’è Marta la giornalista, la testimone oculare (ogni riferimento all’autrice è puramente casuale, ovvio), senza dimenticare Tomas, lo scrittore, che osserva, ascolta il coro, «soprattutto quello che non dicono». Il motivo è presto detto: «Non è letteratura quel che racconta la gente. Ma quanta poesia nelle sue omissioni». Verissimo, però ci vuole talento.

(Nino Dolfo – Corriere della Sera / Brescia)

Fogli fitti di chiacchiere. Va spesso così. A volte invece ci sono pagine essenziali, ricche di verità. Ritagli di vita, ritratti (a parole), segrete suggestioni: fili nascosti di una trama tersa e salda… «Malgrado il vento». È questo il titolo del nuovo libro di Paola Baratto (Manni, pagine 74, 12 euro): tredici racconti e un quartiere cittadino: ec-centrico e normale, con la sua «umanità difforme» tra caseggiati anni Trenta e villette; con l’edicola, il bar, il tabaccaio e, nel verde del parco, una panchina. Lì, en plein air, c’è chi riceve confidenze di voci sconosciute; confessioni raccolte da chi sa ascoltare anche con lo sguardo. Il non detto, col detto; parole e «omissioni», pause e sospiri: sfumature nascoste che la luminosa prosa dell’autrice trasforma in rivelazioni. Piccole epifanie quotidiane dentro una storia corale. Personaggi comuni, esperienze semplici, a dire la complessità del vivere, l’inquietudine che sale da differenti disagi, o da inediti stupori. Tutto cambia in fretta; corre, si corrode. Qualcosa resta, qualcuno resiste. La «fuga con lentezza» di alcuni finisce al minimarket: via da case vuote, s’ attardano alla cassa, indugiano nel regno accogliente di Adelmo. Poi lui abdica, a sorpresa. Arrivano i cinesi, gentili, ma… Tutto cambia. Lo «spaesamento» è dolente; ma anche dolce, se voluto. Berto, l’ingegnere pensionato ama le mezze stagioni e per il suo «straniamento» sceglie un ponticello appartato, modesto, sospeso sul nulla…. Magari poi passa Attilio, il tipo strano che – discreto e creativo – «vende bellezza». Addita fiori tra i rovi, indica scorci, recita versi; in cambio d’una moneta offre «il bello». Bene raro, oggi; «merce di contrabbando» dice Eugenio, il colto architetto. «Niente di più relativo», il bello. Come il brutto. Multiforme è il mondo che esce dalla raffinata penna di Paola Baratto, con una pluralità di atmosfere e dettagli; e la speciale singolarità dei personaggi. Giulio colleziona visioni, attimi che annota, paziente e preciso. Elio – «filosofo del sottosuolo» – mentre sgombera cantine s’ interroga, riflette, classifica… Scruta, vitale e curiosa, la giovane giornalista Marta. Lilli, grossa e goffa, è un po’ svitata e molto sola. Autonomo e sicuro, invece, è Arturo il bel gatto ribelle. Mentre Aldo, l’avvocato misantropo neovedovo, riscopre Camillo, l’amato cocker della moglie (ma quanto le assomiglia: lo stesso sguardo perplesso!). Trascinato dal cane scoprirà il luogo più strano di tutto il quartiere, il salone di Fernanda, estetista portoghese ricca (o ricco?) di fascino. Un «inno alla vivacità»: polpettine di baccalà, un sorriso e la porta sempre aperta… «Malgrado il vento».

(Piera Maculotti – Bresciaoggi)

Ambienti, persone, emozioni: si può racchiudere in queste tre parole la magia dei tredici racconti che la scrittrice bresciana Paola Baratto – scrittrice di lungo corso con all’attivo vari romanzi di successo – ha riunito in “ Malgrado il vento “ (Manni editore).
Racconti senza molti fatti si potrebbe dire, escluse le mansioni e apprensioni esistenziali in una vita che, a ben pensarci, è tutto un accadere di eventi sottotraccia che segnano percorsi di indifferenza o pudore, di menefreghismo o orgoglio, di umiliazioni e riscatti. Eventi tutti che la normalità assorbe con una sopportazione che affina la dignità dell’individuo lasciandosi scivolare addosso gli obblighi della semplicità e del dovere allietati da pochi sogni e spinose ambizioni. In realtà però, ogni personaggio ambisce a farsi conoscere nell’intimo all’interno di un quartiere popolato da sogni e speranza sempre disattese da uno stremato comparto morale.
Un quartiere mondo dove la vita ripete ogni giorno tutti i suoi equilibrismi attenta a non scivolare dal pennone untuoso dell’albero della cuccagna. Errori fatali a volte o sensazioni misteriose anticipano occasioni e altre ne disperdono nel moto del tempo. E ciò che è essenziale rischia di diventare superfluo, la libertà una gabbia, un ghetto in un gioco di valenze e intuiti dentro la circonferenza d’una normalità rappresentata e mai vissuta.
L’esteriorità che Paola Baratto racconta con grande percezione è una realtà desunta da osservazioni critiche, e sia Ada, Attilio, Elio, Natalia e tutti gli altri protagonisti e figuranti di questa commedia che nella sua semplicità ha echi shakespeariani di dibattiti irruenti e cortesi condivisioni, illanguidiscono, sempre vigili però, desti a ogni allarme. Tutti, inconsapevolmente, hanno un copione da rispettare che si chiama destino nel corso del quale espugnano posizioni di ripiego o di trionfante baldoria. Ma tutto è provvisorio. Nel quartiere-mondo la regola è conoscersi e ignorarsi con sussiego e indifferenza. É una contraddizione accettata e consolidata.
La sofferenza taciuta è ritmata da una narrazione visiva – forse la cifra più alta della scrittura della Baratto -, che sa risolvere in poche frasi il teorema della vita.

(Francesco Mannoni – L’Unione Sarda)

Sono tornati, gli appartati, discreti maestri di vita che popolano i racconti di Paola Baratto: dopo il romanzo (Lascio che l’ombra, segnalato in questi Appunti il primo settembre 2019), Malgrado il vento riprende le storie raccolte nel 2014 in Giardini d’inverno e due anni dopo in Tra nevi ingenue. Un dato di continuità da subito evidente è la brevità dei racconti, un tratto che ne è sostanza, non rispondendo tanto a una scelta stilistica, quanto a un impegno preciso, quello di mirare all’essenziale e di questo dire, senza farsi distrarre, senza distrarre il lettore. Il succo della storia è già lì, sin dalle prima righe, e così il suo protagonista. Non ci viene chiesto di arrivarci attraverso trame complicate che mettono in campo schiere di personaggi. Ciascuna delle storie che ci vengono proposte potrebbe costituire il nocciolo di un racconto lungo, se non addirittura di un romanzo – anche perché, sia pure in pochi tratti, spesso si dà conto del passato in cui è maturata la fisionomia del personaggio –, ma una scelta del genere tradirebbe il senso che l’autrice sembra assegnare alla scrittura: dire ciò che davvero conta, appunto, senza confonderlo in un intrico di fatti e discorsi come a imitare la vita.

La buona scrittura, la scrittura vera, quella che giustifica il lavoro dello scrivere e assicura il piacere del leggere, quella che dà senso ad entrambe le attività, opera una distillazione della vita, non ne persegue la mimesi. Ha bisogno della vita, la letteratura, se ne alimenta, ma è altro. Lo leggiamo nelle prime pagine, in una premessa – Le stagioni degli altri – che rappresenta di fatto la dichiarazione di una poetica: “Non c’è letteratura nei racconti della gente”, quegli stessi racconti che pure vale la pena di ascoltare, di saper ascoltare – “un’inclinazione”, questa, che risulta essere ormai “una mercanzia rara”. Come il saper narrare, del resto.

L’autoreferenzialità, la chiusura entro l’orizzonte per forza di cose circoscritto del proprio Io, sono il prezzo che paga una letteratura che non sa prestare ascolto, ma esserne consapevoli non equivale a credere che siano letteratura “le storie che la gente racconta”: tutti credono che “momenti e incontri cruciali” che non han potuto dimenticare “li rendano unici” e che “la loro narrazione li consacri protagonisti di romanzi” (così come, potremmo aggiungere, molti credono che riferire ciò che hanno sentito da altri possa far di loro degli scrittori). “Ma non è così”, perché la memoria non è stimolata a conservare in ragione dell’eccezionalità, di fatti o persone indimenticabili, ma è più spesso attivata dell’orgoglio, dal rancore, o dal rimpianto.

E allora, perché ascoltare, perché prestare attenzione alle vite degli altri, a vite che non sono la tua? A risponderci è la voce senza nome che parla in queste prime pagine, alla quale potremo dare un volto solo più tardi: i “ritagli di vita” che la gente riporta conservano l’“odore” delle vicende ricordate, dei sentimenti che hanno impedito si disperdessero. “Percepire quell’odore” è letteratura, distinguere le ombre che chi racconta non immagina di svelare, ascoltare guardandolo per coglierne sospiri, pause, gesti inconsapevoli e lapsus reiterati, sorrisi che cercano di “svelenire la rabbia” che ancora fatti e parole lontane alimentano. Questo è l’essenziale. “Ascolto soprattutto quello che non dicono”, sintetizza la narratrice, avvertendo preliminarmente il lettore che dunque non sta in quel che racconta la gente, la letteratura, ma nelle sue “omissioni”.
Siamo pronti, a questo punto, a incontrare i personaggi di Malgrado il vento, ma conviene lo facciamo secondo il loro stesso stile: lentamente, sia perché non ci imbatteremo in parole scelte a caso o in passaggi che non siano limpidi e conseguenti, sia perché, se si può ammettere che i racconti siano distinguibili per un loro peso specifico, questi ne hanno a un grado tale da meritare d’essere assimilati con misura, non più di un paio alla volta direi, perché occorre fargli spazio, darsi il tempo di accoglierne le atmosfere, non perdersi gli improvvisi brillii che certe espressioni fanno balenare, apprezzare la grana dei ritratti, ognuno raffigurazione di un particolare modo di stare al mondo, di rapportarsi a sé e agli altri, di testimoniare la possibilità di dar vita a momenti di autenticità. Perché questo è in fondo il convincimento, che emergeva anche nei racconti precedenti: non è con i discorsi, non è con le parole, sia pure impeccabilmente organizzate in denunce e perorazioni, che si contrasta la peste dell’omologazione, dei luoghi e dei paesaggi, dei comportamenti e dei modi di comunicare; non è così che si contraddice davvero la prevalenza del come sul perché, della pura funzionalità sulla ricchezza dei significati e la chiarezza dei fini. È in quel che si fa, in come lo si fa, nella costanza silenziosa di un fare quotidiano e gratuito, non importa se difforme fino alla stravaganza, che si combatte la pretesa arrogante, o il riconoscimento rassegnato, che non c’è alternativa.
Il minimarket, il negozio di quartiere – al di là delle indagini di mercato che sembrano aver riscoperto la funzione del “commercio di prossimità” – sono di fatto quel che erano un tempo il lavatoio per le donne o l’osteria per gli uomini: un luogo in cui “attardarsi”, un’occasione di incontro per “gente che non (ha) fretta, ma case vuote”; un riferimento – per quanti fuggono, sia pure con lentezza, senza darlo troppo a vedere, dalla solitudine – che si rivela insostituibile quando il negozio passa di mano e dietro il banco (sempre che il negozio non sia sparito, magari per esser trasformato in un garage privato) compaiono ragazze cinesi, gentili ma incapaci di stabilire una relazione con i clienti, anche solo chiacchierando del tempo che farà. Non sembrerà esser cambiato poi molto, eppure nulla sarà più come prima: il suono della saracinesca che s’alzava al mattino e s’abbassava la sera non sarà più quel “rintocco” che dava la misura del tempo, diffondeva il senso della giornata che legittimamente finiva anche a chi l’aveva trascorsa senza far niente. Non è escluso infatti che la nuova conduzione prolunghi il servizio nelle ore notturne, senza far più distinzione fra il giorno e la notte. Non risparmia neanche il tempo, l’omologazione.

Eppure un luogo dove è piacevole stare, dove è possibile scambiare notizie e opinioni e perfino gustare sapori nuovi e ascoltare musiche inconsuete c’è, nel quartiere, e non è certo un caso che a metterlo in piedi siano state due straniere, portatrici di una cultura non ancora del tutto normalizzata. Due portoghesi, madre e figlia, che fanno servizio di pedicure e manicure ma offrono ai loro clienti ciò che altrove non trovano più. Anche i meno socievoli fra gli abitanti del quartiere, come Aldo, vedovo alteramente riservato, finiscono con il frequentare la casa di Fernanda e Clelia, luogo di non intenzionale ma efficace resistenza all’isolamento, all’atomizzazione sociale. L’unico a disertare è Eugenio, l’architetto che sta all’ultimo piano, lo stesso che tuttavia troviamo spesso a prestare ascolto ad Attilio, il quale campa vendendo – di contrabbando, come gli piace dire – bellezza, ossia ottenendo qualche soldo come compenso per aver indicato a chi passa “un affresco sbiadito”, dei “grappoli di glicine da poco fioriti”, “un nido di rondini sotto un cornicione” o semplicemente “un invitante profumo di pollo alla brace”. Quello che fa è riconoscere, e far ravvisare agli altri, la bellezza. E, si badi, non lo fa nel centro storico, dove è abbondante e ostentata, ma nel quartiere periferico dove non ci si aspetta di trovarne. La sua è un’altra forma di resistenza all’andazzo generale, propenso alla cancellazione del “senso della bellezza”.
A questo punto mi trovo a dover combattere la tentazione, volendo dire di questo libro, di non tralasciare nessuno dei personaggi, nessuna della forme originali che hanno escogitato per trovare gusto nel vivere, per trovare, sommessamente, senza voler persuadere nessuno, un senso nei loro giorni. È dunque a malincuore che mi lascio alle spalle l’anziano ingegnere a cui piace sostare, soprattutto nei giorni di pioggia, su un ponticello dove prova la “sensazione di essere a metà di qualcosa”; o Giulio, che prendendo nota di “istanti perfetti”, di effimeri momenti di essere, aggiunge un tassello alla rassegna dei collezionisti incontrati in Giardini d’inverno; e Elio, che nel suo lavoro di sgombero di cantine filosofeggia sulle ragioni per cui si conservano o si scartano le cose, le si butta – si notava già in Tra nevi ingenue – per errore o si perdono per disattenzione, oppure le si conserva, magari nella seconda casa, in quanto “testimonianze d’esistenze che non si riesce a tradire”. E poi l’Eugenio già incontrato che, dopo aver per anni progettato architetture improntate alla modernità, si ritrova a prediligere “rovine modeste e senza gloria”, capaci però di rimandare, più che alle date della Storia, al passare e al perdurare del Tempo, in quel gioco di permanenza e impermanenza su cui la seconda raccolta di racconti si era magistralmente soffermata.

E Lilli, infine, illusa “d’essere una persona vocata alla socievolezza”, sempre in cerca di relazioni, “dolce predatrice” dell’attenzione altrui, persa in un autismo ciarliero che i più rifuggono e pochissimi cercano di decifrare. Tra questi lei, Marta, la giornalista da poco stabilitasi nel quartiere in cui ritroviamo le movenze di chi ci parlava all’inizio: ascolta, Marta. Ascolta senza giudicare, ascolta per figurarsi punti di vista altri, per interpretare stili di vita fuori norma. Solo lei poteva comprendere al volo che Tomas, il misterioso “scrittore” che sa in pochi minuti far “ritratti con le parole” e propone, dietro compenso, di restituire a quanti gliela chiedono niente di meno che la loro biografia, non è un genio originale e sensitivo ma “un furbo”, che difatti scomparirà da un giorno all’altro lasciando nell’avvilimento gli entusiasti quanto ingenui clienti illusi di poter “testimoniare la propria visione del mondo, rievocare torti sottaciuti”, diventare i “protagonisti” che sotto sotto avevano sempre creduto di essere riscattandosi dalla loro condizione di persone comuni. Quelli che restano sono solo “fogli fitti di chiacchiere”, invece, e il perché lo sappiamo: chi trascrive solo le confidenze che le persone gli raccontano – o peggio, ne asseconda illusioni a lungo covate o vanità inconfessate –, invece di badare ai loro silenzi, alle lacune che lasciano, non scrive davvero le loro storie. Tanto meno fa letteratura.
La vena autobiografica che aveva fatto capolino sin dalla prima raccolta qui sembra lasciarsi intravedere con più evidenza: è la voce di Marta a chiudere questa silloge di minima moralia – così continua ad apparirmi appropriato definire i racconti di Paola Baratto – rivolgendosi anche a chi trova nella scrittura la sua congeniale forma di critica, la sua personale manifestazione di resistenza.

Una resistenza diversa da quella di Aris, il protagonista del romanzo scritto prima di questi racconti, generoso e intelligente oppositore di una società sempre meno disposta ad ascoltare voci dissonanti, sempre più propensa a chiedere agli esponenti di un pensiero critico di sparire. Ciò che appunto farà lui, ma non Marta, altrettanto estranea allo spirito dei tempi ma capace di prenderne le distanze non affrontandone di petto, e in solitudine, le storture, ma mettendole a fuoco osservando, ascoltando soprattutto, chi concretamente e coerentemente le contrasta, non facendo dichiarazioni ma mettendo in campo comportamenti pacificamente irregolari: comprendere loro significa comprendere sé stessa, fare chiarezza sulle ragioni delle propria inammissibilità ai valori dominanti o, si può anche dire, alla perdita di cittadinanza di ogni valore non quantificabile.

(Carlo Simoni – Secondorizzonte)

Ambienti, persone emozioni: si può racchiudere in queste tre parole la magia dei tredici racconti che la scrittrice bresciana Paola Baratto – scrittrice ormai di lungo corso con all’attivo vari romanzi di successo – ha riunito in «Malgrado il vento» (Manni editore,74 pagine, 12 euro).
Racconti senza molti fatti si potrebbe dire, escluse le mansioni e apprensioni esistenziali in una vita che, a ben pensarci, è tutto un accadere di eventi sottotraccia che segnano percorsi di indifferenza o pudore, di menefreghismo o orgoglio, di umiliazioni e riscatti.
Eventi tutti che la normalità assorbe con una sopportazione che affina la dignità dell’individuo lasciandosi scivolare addosso gli obblighi della semplicità e del dovere allietati da pochi sogni e spinose ambizioni.
In realtà però, ogni personaggio ambisce a farsi conoscere nell’intimo all’interno di un quartiere popolato da sogni e speranza sempre disattese da uno stremato comparto morale.
Un quartiere mondo dove la vita ripete ogni giorno tutti i suoi equilibrismi attenta a non scivolare dal pennone untuoso dell’albero della cuccagna.
Errori fatali a volte o sensazioni misteriose anticipano occasioni e altre ne disperdono nel moto del tempo.
E ciò che è essenziale rischia di diventare superfluo, la libertà una gabbia, un ghetto in un gioco di valenze e intuiti dentro la circonferenza d’una normalità rappresentata e mai vissuta. L’esteriorità che Paola Baratto racconta con grande percezione è una realtà desunta da osservazioni critiche, e sia Ada, Attilio, Elio, Natalia e tutti gli altri protagonisti e figuranti di questa commedia che nella sua semplicità ha echi shakespeariani di dibattiti irruenti e cortesi condivisioni, illanguidiscono, sempre vigili però, desti a ogni allarme. Tutti, inconsapevolmente, hanno un copione da rispettare che si chiama destino nel corso del quale espugnano posizioni di ripiego o di trionfante baldoria.
Ma tutto è provvisorio. Nel quartiere-mondo la regola è conoscersi e ignorarsi con sussiego e indifferenza. É una contraddizione accettata e consolidata. E neanche l’estetista Fernanda potrà ridurre i guasti del tempo, così l’uomo che si priva della sua collezione di video, distrugge un passato emozionale lacerando arcobaleni.
La sofferenza taciuta è ritmata da una narrazione visiva – forse la cifra più alta della scrittura della Baratto -, che sa risolvere in poche frasi il teorema della vita. E i perdenti possono contare sulla psicologia sottile d’una scrittrice che con rare pezze colorate compone meravigliosi arazzi in cui sempre bisbiglia e cospira l’umanità.

(Francesco Mannoni – Gazzetta di Parma)

Tredici racconti con altrettanti protagonisti che si muovono in un unico quartiere sotto lo sguardo attento di Tomas, lo scrittore, che li osserva dalla giusta distanza. Ognuno di loro pare convinto di avere qualcosa di speciale da raccontare, ma solo uno sguardo non giudicante riuscirà a trarre tra le pieghe degli spunti utili per ricavarne delle storie importanti. Attraverso l’ascolto e un’attenta osservazione, Tomas saprà riconoscere in ciascuno di loro uno spunto interessante e da questo punto partirà per raccontare le loro vite: vite tanto ordinarie solo all’apparenza.

“Malgrado il vento”, il nuovo libro della scrittrice bresciana Paola Baratto (Manni 2021), è una raccolta di racconti ambientati in un quartiere indefinito della nostra provincia. Un libro poetico scritto con uno stile asciutto e raffinato, una carrellata di personaggi intensi alle prese con gli eventi della vita e con le loro fragilità nascoste oltre ben oltre la banalità delle apparenze.

(Un vibrante affresco di quartiere)

I tredici racconti che compongono il libro di Paola Baratto sono ambientati in un unico quartiere che fa da sfondo unendoli. In questo unico quartiere i personaggi, ciascuno con la sua storia ben distinta, s’incontrano condividendone i ritrovi: il minimarket di Adelmo, il parco, il ponte sul canale, il centro estetico di Fernanda. E mentre le storie dei tredici protagonisti si susseguono nelle pagine, il quartiere sullo sfondo sembra a sua volta prendere una fisionomia sempre più completa e rotonda fino a suonare familiare agli occhi del lettore.

Ed è proprio questo, ciò che mi è accaduto nel leggere questi tredici brevi racconti, letti tutti d’un fiato poiché la scrittura dell’autrice è coinvolgente e acuta.

Tra le pagine, si percepiscono l’odore e le risonanze di ogni parola scelta dall’autrice per raccontare le tredici storie. Forse, un termine appropriato per descrivere l’impatto, è stata una “musicalità“ particolarmente efficace nel trasmettere lo stato d’animo dei vari personaggi.

(Un libro che parla anche di noi)

Protagonisti assoluti della raccolta sono i personaggi che si susseguono di racconto in racconto, che nella finzione letteraria lo scrittore Tomas racconta a partire dalle omissioni e dalle ombre rendendoli pienamente tridimensionali.

Basti pensare a Attilio, venditore di contrabbando di bellezza, a Ada capace di trasformare in arte l’immondizia o a Lilli, una donna sola, in cerca di attenzioni ma capace di trasformare la sua vita in un romanzo bellissimo. E tanti altri, che meritano di essere letti, perché in ognuno di loro, c’è molto di noi. Le loro fragilità sono quelle di tutti, sembra quasi un elogio alla vulnerabilità, come risorsa preziosa per reagire e gestire gli eventi, talvolta dolorosi e talvolta felici.

Meraviglioso è stato leggere ed osservare il modo in cui le persone reagiscano agli eventi delle loro vite, nel bene o nel male.

I personaggi dei vari racconti sono struggenti, intensi e al contempo delicati che raccontano molto delle vite di noi tutti. Impossibile non immedesimarsi in qualcuno di loro. Siamo tutti, forse, un po’ Attilio, Elio il filosofo del sottosuolo, Ada o Fernanda nel suo salone estetico, Lilli donna sola che racconta una vita che non esiste o Giulio che colleziona istanti.

Un libro di racconti che richiama a il Calvino de “Le città invisibili”, e che denota una grande capacità di raccontare le storie degli individui e la vita di un quartiere.

(Rachele Anna Marzaro – Brescia Si Legge)