Recensioni e interviste “Una luce differente”
Paola Baratto dedica il suo nuovo libro «alle donne impegnate nella ricerca della libertà e a quegli uomini che vogliono esserne complici».Si intitola « Una luce differente» (Manni, 96 pagine, 13 euro; presto anche in e-book a 7,49 u) e le protagoniste dei tre racconti che la scrittrice bresciana vi ha raccolto si confrontano tutte con l’ombra di un maschile assente o lontano, ma molto ingombrante.
La prima, Vittoria, torna temporaneamente nella città in cui è nata da Parigi, dove si è trasferita con la madre, per fare i conti con la morte del padre e la sua pesante eredità. Il padre della seconda, Lidia, è un Maestro del teatro: lei «sa indossare il suo sguardo meglio di chiunque», ma si tratta di un abito che la paralizza. La giovane Gemma, infine, nella villa-museo di un poeta risorgimentale dialoga a distanza con l’illustre autore e con la sua figlia prediletta, Maria Liberta, che dovette accudirlo in vecchiaia. Il titolo del libro viene da una frase di Virginia Woolf: «Ogni onda del mare ha una luce differente, proprio come la bellezza di chi amiamo».
Paola Baratto, in cosa consiste questa « luce differente»?
Volevo parlare della differenza delle donne, ma in modo lieve, senza essere militante o dogmatica. Avevo in mente questa frase di Virginia Woolf e, per quanto riferita ad un altro contesto, ho ritenuto che potesse adattarsi a una visione che non si pone in contrasto col maschile, ma mostra una prospettiva diversa di cui le donne possono essere portatrici. L’idea dell’antagonismo tra maschio e femmina non mi è mai appartenuta: sono arrivata solo adesso ad affrontare questo tema, ma l’ho fatto in coerenza con la mia storia letteraria.
I racconti rivelano la persistenza di forme di maschilismo poco evidenti, ma molto pervasive…
Il mio libro non parla di eventi tragici come un femminicidio, ma descrive qualcosa di più sotterraneo che negli ultimi anni ho cominciato a comprendere meglio: la pervasività di un atteggiamento coercitivo e paternalistico messo in atto nei confronti delle donne.
Una «pesantezza» a cui nel primo racconto si oppone la «leggerezza» di Vittoria?
Sì, Vittoria rappresenta la leggerezza rispetto al padre che incarna la pesantezza, la solidità, le radici che lei ha tagliato. Quando torna nella sua città dopo molti anni ne sente ancora il peso, è una donna tormentata dai sensi di colpa. Tra i due c’era un amore reciproco, ma anche un’inconciliabilità di fondo. Immagino tuttavia che il padre, alla fine, in un suo modo particolare dimostri di aver capito e accettato il bisogno di leggerezza della figlia.
Anche il padre di Lidia è un bel peso…
Lidia ne subisce il carattere imperioso, ma racconto una presa di coscienza, quella che credo si debba attuare rispetto alla propria identità. Ho scritto e ambientato il racconto a Verezzi, in Liguria. Qui Lidia capisce di potersi affrancare attraverso la parola e la scrittura. L’aiuta l’esempio di un’altra donna: Giulia, la protagonista del mio romanzo «Lascio che l’ombra», che ho voluto inserire nella storia perché è un personaggio che mi era rimasto addosso.
Non c’è solo Giulia, intorno alle protagoniste gravita un mondo di altre donne: una rete di alleanze?
Ci sono anche personalità negative come Annica, la compagna del Maestro, quel tipo di donna che sminuendo l’altra si sente più forte. Ma hanno spazio personaggi come Irma Bonfanti, l’anziana insegnante di Vittoria, e Santina, ex staffetta partigiana, ispirati a donne che ho conosciuto. Figure di grande spessore culturale e umano, che dovrebbero forse essere le vere «influencer» delle ragazze di oggi.
Una ragazza è Gemma, come l’ha affrontata?
Mi ha dato molta gioia scriverne, anche se ho faticato ad adattare la scrittura alla sua giovane età. In lei nascono curiosità e simpatia per Maria Liberta, la figlia vissuta all’ombra del padre, eroe del Risorgimento ma non altrettanto liberale in famiglia. Oso criticare un po’ questo mito della guerra, della morte nobile e gloriosa: non mi appartiene e forse, più in generale, tutto ciò che è violenza non appartiene all’universo femminile.
(Nicola Rocchi – Giornale di Brescia)
Vittoria torna nella città natale dopo la morte del padre per sistemare le cose. È un tuffo nel passato, a quelle radici che si vivono con imbarazzo, quasi con disagio, dopo una vita adulta passata altrove.
La cittadina di provincia dove era cresciuta nel frattempo ha mutato volto, in certi quartieri ha acquisito un profilo multietnico che non piace a tutti e su cui un vecchio amico di gioventù, ora diventato consigliere comunale, gioca la sua demagogica campagna elettorale. Ma la protagonista non sembra curarsene. Ciò che le interessa è dipanare un piccolo mistero: il padre, prima di andarsene, aveva appuntato su un foglietto l’indirizzo di un locale commerciale ora vuoto, come se volesse acquistarlo. Solo alla fine del racconto si scioglierà l’enigma, ma intanto la donna capisce che il genitore aveva intuito la propria imminente fine. Stava infatti liberando la casa dagli oggetti più cari: i libri, sebbene non i grossi tomi dei testi di giurisprudenza (era stato avvocato); persino i giocattoli di legno dell’infanzia. Ma soprattutto il percorso di Vittoria a ritroso nel tempo è l’occasione per tracciare un bilancio del rapporto col padre, della diversità che la separava da lui, delle ragioni latenti di una comprensione reciproca mai giunta fino in fondo: «Devoto com’era a tutto ciò che ha un peso, non poteva intuire la mia vocazione alla leggerezza».
Lidia è l’assistente di un importate uomo di teatro, tutta tesa a interpretare i suoi desideri, succube di lui al punto da tollerare di essere insolentita dalla «giovane scandinava dai verdi occhi gelidi e un po’ folli » con la quale ultimamente l’uomo si accompagna. Nell’universo di una mondanità artistica vacua e superficiale a cui negli anni è stata costretta ad assuefarsi, «si è abituata all’evanescenza delle relazioni, al sottofondo di frivolezza nelle conversazioni più serie e profonde». Da tempo la donna sta attendendo alla stesura dell’autobiografia del ‘Maestro’, quando di punto in bianco quel lavoro nel quale sta riversando tanto impegno le viene sottratto per essere affidato a un editor più esperto. È a quel punto che lei, in una conversazione telefonica con l’artista, si lascia andare a un’esclamazione che fa capire al lettore chi sia veramente.
Gemma ha vent’ anni, studia all’università, ma è «malata di casa», come dice sua nonna. Sua zia Susi ha trovato per lei il termine tecnico: hikikomori, vocabolo giapponese che indica le persone colpite da una sindrome che induce a chiudersi nella propria stanza senza mai uscirne. I familiari le trovano un’occupazione che potrebbe guarirla: andare a occupare il posto di custode nella casa-museo di un poeta risorgimentale situata in un piccolo borgo. In quella vecchia dimora piena di «ticchettii e scricchiolii», che però non la inquietano affatto, ritroverà una forma di socialità attraverso il contatto con i visitatori.
Queste tre storie, scritte con tocco delicato e piena padronanza di stile, compongono l’ultimo libro di Paola Baratto. Le protagoniste sono donne in fuga da se stesse. Infelici? Forse. Certamente alla ricerca, più o meno consapevole, di una possibilità di felicità, di «Una luce differente » con cui interpretare l’esistenza. Un concetto che Vittoria identifica in una precisa immagine di sé: «L’immagine di quando, seduta da qualche parte, osservo le vite degli altri e me ne lascio talmente assorbire da smemorarmi di me stessa. O anche di tutte le volte in cui, ritrovandomi in un luogo dove non sono mai stata, mi sento come se fossi nata in quel momento».
L’autrice, indagando sul peso del passato nei destini individuali, analizza con acutezza gli stati d’animo dei personaggi con flaubertiana leggerezza: i Tre racconti di Gustave Flaubert – ricordiamolo – si aprono con quel capolavoro assoluto di introspezione e di sguardo su un’anima che è Un cuore semplice. Forse non è un caso che anche i testi di questo bellissimo libro siano proprio tre.
(Roberto Carnero – Avvenire)
La lettura non basta. Ci sono libri che sono luoghi di ascolto e richiedono un’attenzione diversa. Libri acustici, che detergono e asciugano le parole, ne ricercano l’esattezza per restituire sonorità e senso perduti. Ogni volta che si entra tra le pagine di Paola Baratto si ha la sensazione che sotto il palcoscenico della commedia umana in corso di rappresentazione ci sia un golfo mistico, nonché una cura certosina dell’architettura narrativa che sembra formata da strutture frattali, oggetti matematici, sezioni auree. Mettiamoci pure le sequenze numeriche di Fibonacci. La scrittura non può certo prescindere dal talento, ma è soprattutto un lavoro faticoso, anche se praticato liberamente da diportisti.
Questo lavoro di antica bottega, lima e scalpello, è alla base di Una luce differente (Manni, pp. 94, euro 13), ultima fatica della scrittrice bresciana, silloge di tre racconti, ognuno dei quali ha come protagonista una donna. Tre donne, tre figure che non si rassegnano al copione del destino e decidono di sapere quello che sarà il proprio posto nel mondo, smarcandosi dall’incombenza dei Lari maschili domestici e non solo (padri di famiglia o della patria), avvalorando che l’autodeterminazione è un diritto di civiltà. Nessuna ribellione plateale, da suffragette postdatate di una guerriglia di genere, solo un gesto maturo di libero arbitrio effettuato con grazia inflessibile. A riprova che ogni creatura umana può trovare dentro di sé, ed esserne quindi testimone, quella «luce differente» – il titolo ammicca a Virginia Woolf – che è una risorsa imprescindibile di consapevolezza e affrancamento.
Vittoria, la protagonista del primo racconto, è una giovane donna che è andata a vivere a Parigi dove la madre ha un altro uomo. Fa ritorno nella città natale in occasione della morte del padre, il genitore che ha incarnato quella tradizione con cui lei ha tagliato i ponti. Sembrerebbe un atto dovuto, una faccenda amministrativa, la chiusura di un conto sospeso con il passato, in effetti il suo soggiorno sarà un innesco di riflessioni rivelanti, spiazzanti, perché gli affetti, anche quelli difficili, lasciano tracce e pendenze con la verità. Lidia, seconda protagonista, è figlia di un dispotico quanto insopportabile Maestro del Teatro cui fa da segretaria e vestale. Scoprirà che la scrittura può essere una camera d’ossigeno in un’esistenza ammorbata. Anzi, la sua salvezza, il suo passaggio a Nord Ovest. Infine Gemma, la terza, che nominata custode in una casa-museo di un letterato risorgimentale si appassiona per empatia istintiva alla vicenda di Maria Liberta, la figlia che lo ha accudito fino alla morte. In alcuni grand’uomini però il lato pubblico non coincide con quello privato: si è magari liberali in politica e monarchi tra le mura domestiche. Ci sono amori familiari che in nome della nobile causa dell’assistenza esigono rinunce e sacrifici. Amori che scattano come trappole.
Paola Baratto segue un suo percorso di qualità con la tenace solitudine dei maratoneti. Sotto la superficie delle cose quotidiane scova abissi, latitudini interiori, grumi di non detto nella gestione ordinaria dei sentimenti, piccole incrinature e desideri deviati. E lo fa con quel suo stile arduo, personale, lisciato come i tronchi d’albero che restituisce il mare.
(Nino Dolfo – Corriere della Sera Brescia)
«Permane il segno di un vuoto. Come quando si stacca una cornice dal muro»: tornata per il funerale, Vittoria è sorpresa nello scoprire come il padre stesse vendendo o avesse regalato le molte cose sulle quali fondava la sua “pesantezza”, così inconciliabile con la “leggerezza” che lei e sua madre avevano scelto nell’abbandonare lui e quella città di provincia. Struggente risalita nelle incomprensioni reciproche.
«Si sente nuda, in maniera virginale» Lidia mentre guarda il mare all’alba dal borgo saraceno sulla costa ligure. Momento tutto suo. Poi tornerà ad indossare gli abiti che altri le mettono addosso, ad essere l’assistente del Maestro, ad assecondare capricci e anticipare desideri.
Spera di riscattarsi scrivendone la biografia, ma l’ego monumentale del grande regista teatrale non contempla ruoli diversi dalla prostrazione ancillare.
«Dovrei credere con più convinzione ai fantasmi», pensa Gemma, studentessa universitaria che si è chiusa in casa. Su spinta di mamma e zia diventa custode dell’abitazione-museo d’un letterato risorgimentale. Trova la complicità di donne reali e immaginarie, come Maria Liberta, la figlia-ombra del poeta.
Perché le cose vanno così: quand’anche danno nomi irriverenti alle figlie, pure i sovversivi gradiscono assoluta devozione.
Tre donne, tre storie, altrettanti modi di affrontare l’ombra pesante del patriarcato, che imprigiona in affettuosi ricatti.
«Una luce differente»: è il titolo del trittico dei nuovi racconti di Paola Baratto. Citazione felicissima da Virginia Woolf: «Ogni onda del mare ha una luce differente…». Bagliori, chiarori, riflessi che solo uno sguardo acuto e allenato coglie. E Paola Baratto ha il raro talento di saper fissare quelle vibrazioni dell’animo in un vocabolo, un avverbio, una frase.
Dopo il periodo dei romanzi-affresco, la sua scelta del racconto-pennellata ha molte valenze suggestive. Stilistiche e di scrittura, innanzitutto, perché il testo breve richiede perizia nel discernere e sensibilità nel distillare parole e colori. Ma anche d’impostazione, per tempi e ritmi.
Accanto alle ben riuscite raccolte di racconti brevi e brevissimi, e dopo averne annodati alcuni a mo’ di romanzo, ora ecco storie più distese e articolate, attorno allo stesso tema. Personaggi e mondi, atmosfere e sensazioni, più che trame, a scorgere sempre lo spiraglio d’una luce differente sulla vita e nelle vite.
(Claudio Baroni – Giornale di Brescia)
Tre storie di giovani donne «vittime di un incantesimo conformista», o di «mondanità della classe media» che inquisiscono la vita e le emozioni alla ricerca di sé stesse per trovare «Una luce differente» (Manni, 94 pagine, euro 13) che illumini e riscaldi con più calore le loro esistenze. Si chiamano Vittoria, Lidia, Gemma, e sono le protagoniste di tre racconti lunghi (o romanzi brevi) nei quali la scrittrice bresciana Paola Baratto – fedele in ogni suo libro ad un originale stile narrativo -, associa la profondità del pensiero a contenuti psicologici in cui la vita lievita e trascende.
Nel primo racconto, «Il bar dell’alba», Vittoria torna alla città d’origine per i funerali del padre e il disbrigo di alcune pratiche amministrative.
La madre è ripartita subito per ritornare dal suo compagno lasciandole tutte le incombenze del caso, e lei si ritrova incerta fra gesti consueti e volti sconosciuti segnati dall’ingiuria del tempo. E scopre nelle reticenze dei locali un’altra anima del padre, il suo bisogno d’affetto tramortito da una solitudine che aveva trasformato la sua esistenza in decadenza dopo la separazione dalla moglie. Ogni suo gesto, ogni suo ricordo consegnato alla memoria degli altri, tradiva il desiderio di abdicare da un passato che Vittoria indaga. Regalava o cedeva per poco arredi della casa agli amici, quasi volesse rimuovere aspetti d’un tempo che non gli apparteneva più. E a quella figura paterna sola e indefinita, Vittoria si aggrappa per contrastare il dilemma che la sottopone a un duro confronto.
Implacabile invece è la figura paterna per Lidia, la protagonista del secondo racconto, «Il mare temporaneo». Succube della sua fama di regista osannato, la giovane deve subirne l’insensibilità e l’arroganza, e spesso la pietosa magnanimità del compatimento. Un atteggiamento che antepone il potere all’umiltà, l’arroganza alla condiscendenza che accetta offese brutali e tace sofferenze che come tsunami travolgono le più intime resistenze.
Ma forse il personaggio più singolare è Gemma, protagonista del terzo racconto «Fantasmi»: una ventenne che non vorrebbe lasciare mai il nido della propria abitazione, «una malata di casa» che ama la solitudine. Accetterà un posto di governante nella casa museo di un poeta risorgimentale, imparerà a convivere con un passato valoroso, con la figura di un uomo che la sovrasta in una casa in cui vorrebbe avere «la certezza di non essere sola».
Tre vite anonime avvolte nella luce incorruttibile della poesia, senza mai diradare da una riflessione all’altra il nesso tra esistenza e competenza, perché vivere anche tra «frustrazione e rabbia isterica» è la più eroica delle imprese. E con ciò la Baratto conferma la sensibilità d’essere una scrittrice che sa come raccontare i desideri, le angosce, le dubbiose proiezioni delle anime. E capirne le profondità.
(Francesco Mannoni – Eco di Bergamo, Gazzetta di Parma, Unione Sarda)
Tre luminosi racconti. Un’abile narrazione. Il nuovo libro della scrittrice
bresciana Paola Baratto accende «Una luce differente» (Manni editore, 94 pagine, 13 euro) su singolari figure femminili, diverse ma uguali nella ricerca della propria verità.
Vittoria, da anni assente, torna nella città d’origine per l’improvvisa morte del padre, uomo saldo e austero, distante da quella «vocazione alla leggerezza» che la figlia coltiva con «rigorosa convinzione». Metter mano alla casa e alle cose paterne è per lei un tuffo nell’alto mare dei ricordi tra emozioni confuse e inquietanti perché. E il «Bar dell’alba» è una darsena, la sosta giusta per «ripescare qualcosa di sommerso» e non detto che possa aiutare a spiegare l’inspiegabile. Riscoprendo segreti percorsi inattesi dentro quel gioco dell’oca che a volte è la vita. La sorte, le scelte, la libertà (di gesti e di sguardo) ardua meta sempre; o forse nuovo inizio, con la complicità dell’alba…
Anche Lidia ama «l’incanto di quell’ora sospesa»; le prime luci, lassù, nell’antico borgo ligure sopra il mare. Un attimo, felice, di oblio; una zona franca dai quotidiani compiti e doveri; dagli ordini e capricci del grande Maestro, che calpesta e offende e neppure lo sa. Lassù Livia è sola con se stessa, con il mare e il suo amore per la scrittura, fervida passione, assiduo impegno nascosto: incompreso e ora negato. Che fare? Opporre alla resa la sfida di un ritrovato coraggio?
E c’è Gemma, una «giovanotta» di vent’ anni; «malata di casa», si trova a vivere la curiosa avventura di abitare – come ospite, e zelante custode – la casa-museo d’un letterato ottocentesco; vetusta dimora di provincia tutta ticchettii e scricchiolii, col giardino, le rondini e le visite, anche guidate. Odiose alcune. Altre gradite: ecco le due «ragazze» che portano qui i loro freschi novant’anni non per «passare il tempo, ma per dargli un senso»; o Maria Liberta, la defunta figlia del poeta risorgimentale, Fantasma con cui dialogare.
Presenze vive; speciali piccole epifanie che la «luce differente» di Paola Baratto inventa e svela.
(Piera Maculotti – Bresciaoggi)
«Alle donne impegnate nella ricerca della libertà» sono dedicati i tre racconti che il nuovo libro di Paola Baratto raccoglie. A donne come Vittoria, Lidia, Gemma, diverse fra loro ma accomunate da alcuni tratti essenziali, da una «luce differente» che trascorre da una storia all’altra sul filo di una continuità profonda, sostanziata dai caratteri dei personaggi e dai temi di cui si nutre una poetica riconoscibile da un libro all’altro dell’autrice.
L’esperienza che vivono, tutt’e tre, si realizza in un posto che non è quello in cui vivono abitualmente, e questo scarto gioca un ruolo non secondario nello sguardo che rivolgono ai luoghi e alle persone: la sensazione che prova Vittoria al ritorno nella città natale rimanda a quella di Lidia in visita a un paese di mare e di Gemma trasferitasi quale custode in una casa museo.
Non si dà esperienza fuori luogo, sembrano avvertirci questi racconti: quel di più di vita, quel sedimento prezioso che chiamiamo esperienza è frutto di un confronto serrato, e fecondo, con ciò che ci sta intorno, con ciò con cui siamo capaci di entrare senza preconcetti in relazione lasciandocene sorprendere. E i luoghi non sono semplicemente spazi, non sono definiti solo dalle tre dimensioni. Gioca in essi una quarta dimensione in grado di produrre lo scarto generativo di esperienza: il tempo. Sono sensibili all’ora e alla stagione le protagoniste: alzarsi all’alba e uscire nella città è per Vittoria condizione per affacciarsi «sulle strade, come se fossero nude dormienti incolpevoli», e non diversamente alzarsi presto dà a Lidia «una sensazione pacificante. Mettendo a tacere il brusio dei sensi di colpa e delle urgenze». Mentre Gemma trova «struggente il ritorno delle rondini» e si lascia catturare dallo strepitio delle cicale che le fa «percepire lontananze» mai sperimentate.
Il tempo, dunque, come terreno sul quale si gioca la possibilità di dar senso alla propria vita evitandone la dissipazione nei convenevoli (come il «Che mi racconti?» che invita chi è stato assente ad «asciugare» anni di vita in un’«arida sintesi di pochi titoli») e nella chiacchiera, a costo di «trascurare il fatto che le conversazioni si nutrono anche del superfluo» e che persino quelle «più serie e profonde» non sono esenti da un «sottofondo di frivolezza».
L’esperienza delle protagoniste si concreta nella solitudine ed è sensibile alla desuetudine, secondo una postura che contraddice inclinazioni che possono forse esserci appartenute («Da giovani non ci si interessa a ciò ch’è marginale e non sa di nuovo»), ma che con il passare degli anni hanno cambiato segno, portando – è il caso di Vittoria, per certi aspetti il più complesso dei tre personaggi protagonisti – a privilegiare ambienti che offrono la possibilità di praticare «una tassidermia di sensazioni perdute» ma, si badi, senza per questo attirare nella palude del rimpianto. Li si può piuttosto chiamare «darsene», quegli ambienti, spazi in cui «resiste un’atmosfera inalterabile» e dunque «si può sempre ripescare qualcosa di sommerso», perché sono «indifferenti alle mode che li sopravanzano, non sembrano soffrire la malinconia d’essere lasciati indietro».
È in passaggi come questo che si intravede, senza che sia teorizzata, la certezza che la nostalgia – a differenza di quanto può essere il rimpianto – non è sentimento retrivo, paralizzante, ma memoria che sa farsi immaginazione, risorsa di giudizio, non di rado critico, dell’esistente.
Entro queste coordinate di fondo si dipanano le tre storie.
Il luogo dal quale Vittoria si sente accolta – nonostante l’«indifferenza distratta» pronta a virare in «curiosità ruvida» della proprietaria – è una latteria, stando alla vecchia insegna; un «“alimentari” con annessa caffetteria», di fatto. Uno di quei negozi di quartiere – come il minimarket che compariva in uno dei racconti di Malgrado il vento – che sanno contrastare l’omologazione degli spazi cittadini, anche se la loro chiusura solo a pochi appare una perdita. Di socialità, di memoria collettiva. Sembra esser stato questo il destino del negozio attiguo alla latteria, un tempo laboratorio d’un tappezziere, e la bottega dell’antiquario dall’altra parte della strada, la cui vetrina lascia «trapelare solo un disordine» che richiama l’immagine dell’«interno d’un ventre, pieno di scarti di case d’altri». Ma le cose non sono solo cose, come non lo sono «gli indumenti degli assenti», nei cui tessuti «resta infeltrita l’evidenza di un’identità». Lo sapeva bene il padre di Vittoria, da poco scomparso, «talmente legato alle sue cose, da far pensare che fosse mosso da una sorta di sentimento “animistico”». È per svuotarne la casa che lei, ormai trapiantata a Parigi, è tornata nella sua città natale. (Un tema ricorrente anche questo, nei racconti di Paola Baratto: torna alla mente l’Elio di un altro dei racconti del libro già citato, per il quale lo sgombero di cantine era un lavoro e insieme l’occasione per filosofeggiare sulle ragioni per cui si conservano o si scartano le cose).
Con la casa e le cose del padre si trova a fare i conti Vittoria: con il tempo, nella sostanza. Il tempo che non lascia intatti nulla e nessuno, che non ha risparmiato la città, “un piccolo museo di circostanze trascorse”, agli occhi della protagonista, nonostante i cambiamenti intervenuti (ma si sa, «Chi torna per poco tempo (…) posa lo sguardo solo su ciò che vuol vedere immutato»), e tanto meno ha ignorato le persone: Vittoria, dopo il suo ritorno, deve prendere atto – sulle orme del Proust del Tempo ritrovato, verrebbe da dire – che è «la mano pesante del tempo» a renderle difficile riconoscere donne e uomini una volta a lei vicini, i quali a loro volta probabilmente stentano a individuare chi sia lei, la sola, forse, ad essere “infestata dai ricordi”. Non altrettanto avviene nella relazione con le cose: quelle si lasciano riconoscere, e a loro modo riconoscono, si sarebbe tentati di dire stando all’emozione che l’incontro con esse suscita: il cartone d’un Gioco dell’oca che le era appartenuto da bambina è solo il primo degli oggetti che Vittoria trova essere stati disseminati dal padre, prima di morire, presso coloro che nel quartiere frequentava ed erano diventati suoi interlocutori abituali: l’ha prevenuta, di fatto, preoccupandosi, prima di andarsene, di garantire un futuro alle cose che l’avevano accompagnato una vita, dai vecchi arredi agli «adorati tomi» che gli confermavano come «il valore della lettura non potesse essere disgiunto dal peso, dall’ingombro di spazio».
È così che il racconto lascia emergere – senza bisogno di esplicitarlo, e dunque tanto più efficacemente dal punto di vista narrativo – la grana del rapporto che ha legato il genitore e la figlia, sensibili entrambi al tempo rappreso nelle cose, divergenti nel dar esito a questa stessa sensibilità: «Devoto com’era a tutto ciò che ha un peso, non poteva intuire la vocazione alla leggerezza. E, soprattutto, non capiva quanto sia difficile restarvi fedele (…) con tutte le macerie che la vita, quando cerchi di passare oltre, ti rimette nelle tasche». Ma, alla fine, pare che anche il padre si sia convertito a quella morale della leggerezza: il presentimento della morte l’ha indotto a “liberare” le cose in cui si era riconosciuto, in cui come tutti aveva creduto di riconoscere la possibilità di durare.
Con un padre assai meno riservato, a suo modo rispettoso, ha invece a che fare Lidia, figlia di un uomo di teatro nel quale si assommano, in un ritratto magistrale, i tratti del narcisista, del «mattatore dell’ego», rivelatisi tanto più seduttivi e al tempo stesso prevaricatori quanto più è avanzata l’età.
Il paesaggio non è più quello urbano. I colori di un paese ligure – nel quale si è recata per trovare una sistemazione adatta al soggiorno del padre in vista di un prossimo festival teatrale – si intrecciano alle sensazioni della protagonista, che sa far tesoro, nelle prime ore del mattino, di «una zona franca che le è lecito considerare esclusivamente sua» in contrasto con la giornata pervasa dal «dovere d’intuire, assecondare, privilegiare le esigenze degli altri». Tra queste, la cura dell’autobiografia che il Maestro sta scrivendo, non propriamente un dovere in verità, perché a Lidia «è sempre piaciuto scrivere. E finalmente, ora, è legittimata a farlo, benché al servizio di altri». È lui, il Maestro, a raccontarsi, con il suo «tono, sottilmente sornione» e la propensione al «ritocco della mistificazione» quando si tratta di riferire i fatti, ma anche nello scrivere per procura che le viene richiesto Lidia sa trovare una «zona franca»: «suoi sono la scelta del ritmo, il lavoro sugli aggettivi, l’invenzione degli incipit e delle chiose», e la «ricerca della parole più appropriate», che devono «entrare nel periodo con naturalezza, senza forzature, ma dando risalto all’insieme, come una tessera in un mosaico». È la definizione di uno stile che si fa sostanza della scrittura, che riassume nelle scelte di chi scrive un modo di atteggiarsi, di stare al mondo, fatto in egual misura di discrezione e di precisione. “Anch’io ho le parole”, troverà la forza di dirsi Lidia. La «Lidia segreta» che s’è convinta di dover preservare i propri canoni dall’assimilazione a quelli del padre e che si proporrà di resistere, a suo modo, alla decisione del suo insensibile ed egoista committente di affidare la cura dell’autobiografia a un editor professionista: lo «coverà come un segreto» nonostante tutto, Lidia, quel «lavoro fervido e accurato» che la scrittura è per lei.
Non è un padre, ma un celebrato poeta ottocentesco l’uomo al quale deve rapportarsi Gemma. «Ammalata di casa», secondo la nonna, «“Hikikomori”» secondo la zia, amante di «termini stilosi», la protagonista del terzo racconto rimanda indefinitamente le uscite col risultato di non abbandonare mai la propria casa: si tratta di qualcosa di più che semplice pigrizia, è «una specie di malattia, di stanchezza di vivere a vent’anni». Ma non è una ragazza triste, Gemma. Si appaga dei colori del giardino, del volo delle rondini che han fatto il nido sotto il portico, delle sensazioni che la pioggia o l’afa le suscitano: una sorta di Emily Dickinson, non a caso citata in esergo, fervidamente quieta nel suo giardino.
Il giardino di Gemma è quello della casa natale del poeta, che è stata musealizzata e dunque richiede una custode che vi abiti: chi meglio di Gemma? Lei, pur perplessa sulle prime, non si lascia inquietare da una solitudine attraversata da ticchettii e scricchiolii e non ha paura dei fantasmi: con quello che sembra abitare il ritratto del poeta ci parla addirittura, senza soggezione, «in un tono sfacciatamente familiare», senza lesinargli qualche rimprovero, quello soprattutto di aver costretto la figlia a una vita anonima al servizio esclusivo del genitore. E dunque, nonostante trovi “paradossale” che si sia potuto credere “Che una malata di casa possa guarire restando chiusa in un’altra casa”, si adatta alla sua nuova condizione, che la fa sentire “un’assente giustificata” e le fornisce occasioni di dialogo, non tanto con i visitatori che giungono in comitiva, quanto con due vecchie donne del paese che fanno della casa museo e della compagnia della ragazza una meta e un’occasione ideale non “per passare il tempo, ma per dargli un senso”. Una regola in cui Gemma non può non riconoscersi e che nella più anziana delle due scopre essersi concretizzata nella partecipazione, come staffetta, alla Resistenza. Del tutto logico dunque che le due donne condividano la considerazione della giovane custode per Maria Liberta, la figlia del poeta, una presenza che si fa sempre più affine, e significativa: “Mi domando se lei abita, ancora, nelle cose”, è il pensiero che alla fine Gemma le rivolge.
Sono donne, in conclusione, ad abitare le pagine di questo libro. Gli uomini citati nella dedica già richiamata, insieme alle “donne impegnate nella ricerca della libertà”, sono quelli che “vogliono esserne complici”: non pare ve ne sia traccia nei tre racconti. Racconti di donne, in cui gli uomini compaiono quali padri in modi e misure diverse soverchiatori, o comunque estranei al sentire delle figlie. Oppure sono esseri inconsistenti e fasulli, come l’attivista politico un tempo compagno di scuola di Vittoria, o l’antiquario, che esibisce «una posa démodé che ricorda i frequentatori di night”, con la sua «studiata flemma» e quegli «occhi piccoli velati di sazietà». Ma è nella delineazione delle fisionomie e dei caratteri dei personaggi minori femminili che si evidenzia con forza la qualità della scrittura: alla proprietaria della latteria, ad esempio, «è rimasto il disinvolto disincanto delle bellezze appariscenti, assuefatte all’abitudine d’essere oggetto d’attenzione», per cui «non dà l’impressione d’aver rinunciato ad una certa idea di se stessa»; la parrucchiera «mantiene l’aria lievemente seccata di certi artigiani, quando trattano il cliente come se li distogliesse da occupazioni più importanti»; Annica, la «giovane scandinava dai verdi occhi gelidi e un po’ folli», che accompagna il vecchio, ancora prestigioso teatrante, è sempre tesa a «mettere alla prova la tenuta della sua apparente imperturbabilità e dimostrare la propria forza», occupata nell’«esercizio quotidiano (…) che consiste nel calpestare fragilità altrui per corroborare la proprie sicurezze».
Non si tratta di bravura, di prove riuscite grazie al mestiere: per creare ritratti di questo genere occorre quel guardare diversamente che è proprio di chi scrive. Anche quando non scrive.
(Carlo Simoni – Secondorizzonte)
La città di provincia dell’infanzia, il borgo saraceno affacciato sul mare, la casa museo d’un poeta. Tre luoghi, tre giovani donne. Tre modi diversi di fare i conti con l’ombra non ancora dissolta dal patriarcato, e – per tutte – la necessità di essere davvero una luce differente.
“Una luce differente”, il nuovo libro della scrittrice bresciana Paola Baratto edito da Manni (2022), è una raccolta di tre racconti in cui le protagoniste sono tre donne che si confrontano con l’ombra di un essere maschile assente o lontano, ma assai ingombrante.
Un lavoro aperto da una dedica chiara e incisiva, “alle donne impegnate nella ricerca della libertà e a quegli uomini che vogliono esserne complici”, in cui Paola Baratto trascina il lettore in tre racconti poetici e travolgenti. Capaci, anche grazie ad una scrittura impeccabile, raffinata, asciutta, di trasformare lo sguardo della lettrice o del lettore in quello delle tre protagoniste: nei loro occhi che scrutano la bellezza e il dolore, cercando di andare in fondo al mistero per trovare la verità.
La protagonista del primo racconto è Vittoria, una giovane donna che torna per breve tempo nella città in cui è nata partendo da Parigi, dove si è trasferita con la madre, per fare i conti con la morte del padre e con la sua pesante eredità.
Vittoria rappresenta la leggerezza rispetto al padre che invece, incarna la pesantezza, la solidità e le radici che lei ha reciso.
Il padre della seconda protagonista, Lidia, è invece un maestro del teatro: lei “sa indossare il suo sguardo meglio di chiunque”, ma si tratta di un abito che la paralizza. Infatti, ne subisce il carattere imperioso e dominante. Ambientato in un piccolo centro abitato della Liguria, il racconto accompagna Lidia nella scoperta della parola e della scrittura come elementi in grado di affrancarla da tutto questo. Aiutata, in questo percorso, dall’esempio di un’altra donna: Giulia.
La terza protagonista porta il nome di Gemma. In lei nascono curiosità e simpatia per Maria Liberta, la figlia vissuta all’ombra del padre. Nella villa-museo di un poeta risorgimentale, Gemma dialoga a distanza con l’illustre autore e con la figlia prediletta, MariaLiberta, che dovette accudire il padre, eroe del Risorgimento ma non altrettanto liberale e democratico in famiglia, durante la sua vecchiaia.
“Ogni onda del mare ha una luce differente, proprio come la bellezza di chi amiamo”. Questa frase di Virginia Woolf si adatta bene al pensiero dell’autrice. Il libro di Paola Baratto racconta infatti la storia di giovani donne raccontate non in contrasto col maschile, ma nel loro essere portatrici di una prospettiva diversa.
Anche se i racconti rivelano una sottile forma di maschilismo, talvolta velato ma assai pervasivo, l’antagonismo tra maschio e femmina non emerge mai in maniera esplosiva. “Una luce differente”, infatti, non è un libro che parla di femminicidio o di violenza di genere (almeno non di violenza fisica) ma che è capace di descrivere qualcosa di più sotterraneo e sottile, cioè un certo atteggiamento paternalistico messo in atto nei confronti delle donne.
Scritto in modo magistrale, il libro si legge veloce nelle sue 96 pagine. Ma induce a soffermarti e a riflettere su ogni singola frase o parola scritta. Un libro che dovrebbero leggere tutti, uomini e donne, e che intima a quella solidarietà di genere spesso sottovalutata dalle stesse donne. L’empatia è il collante, per superare un certo sessismo e maschilismo, spesso velato ma dominante nella vita di qualsiasi donna.
La cultura patriarcale influenza ancora sia gli uomini che le donne e i loro rapporti in modo significativo. E, leggendo “Una luce differente” di Paola Baratto, tutto questo balza all’occhio in modo spiccato e struggente.
(Rachele Anna Manzaro – Brescia Si Legge)
Tre luoghi dagli orizzonti per tre giovani donne che cercano la felicità, che non si arrendono, che vogliono il posto nel mondo a cui hanno sacrosanto diritto, al di là delle pagine di un destino in apparenza già scritto: ecco gli sfondi su cui si dipanano le intense vicende di questi racconti, apologhi del desiderio di salvezza dal male di vivere, del bisogno di una luce differente che illumini ogni cosa, al di là delle convenzioni. Da leggere.
(Gabriele Ottaviani – Convenzionali)