Di carta e di luce: assaggi
La mia vecchia auto, gonfia di cose accessorie, inanellava gallerie tra una chiostra di colli e il mare. Un mare velenoso. Aranciato. Un’amanita dall’intoccabile bellezza sinistra. Poco al di sopra, treni ultraveloci si lasciavano dietro la deserta sequenza di stazioni litoranee. E ventosi lungomare irti d’agavi e palmizi.
Conservavo un ricordo infantile di quando la ferrovia sotto di noi aveva un pigro tragitto ritmato di fermate. E ogni sosta era come una santella fiorita.
Sulle banchine attendevano giare rosasabbia raggianti di ragni e geranei. E cespi di siepi salmastre. Un benvenuto in lingua iodata che anticipava il mare, simulando il verde dell’alga o l’acre delle baie d’ossi e vetri politi.
(dal capitolo 5)
L’arrivo fu un cortile scricchiolante sotto le ruote della nostra auto. In fondo al cortile la facciata rustica di una villa e qualcuno che teneva la mano destra tra gli occhi e un tramonto troppo intenso.
Poi quella mano sguainata verso di noi.
E oltre la mano una tizia che pretendeva di baciarci. Entrambi.
(dal capitolo V)
Mi assalì l’incanto di svegliarsi altrove.
(dal capitolo VI)
Quando Bernard ebbe fatto il segnale telefonico convenuto, imboccammo il canyon principale. Era come calpestare un tramonto. Veniva da chiedersi se fosse stato il cielo di quell’ora a gettare i suoi colori ai nostri piedi. O se, al contrario, fosse stato il polverìo ocraceo, sollevato dal vento, ad aver macchiato l’azzurro sopra di noi. In alto come in basso, un immenso ematoma variegato. Che era croceo, e magenta, e aragosta, e becco d’oca, e rame, e paglia…
All’improvviso una raffica più intensa ci costrinse a fermarci. Nascondemmo occhi, naso, bocca tra le stoffe dei vestiti e, accartocciati come ragni, attendemmo che cessasse.
Una furiosa tempesta di ruggine mulinava intorno. La cenere bruciante di quel rogo freddo scivolava dai pendii, ci investiva, volava altrove, aranciando gli alberi dei boschi vicini.
Anche lui attese che la tempesta si acquietasse, prima di comparire.
(dal capitolo VII)
Volevo scoprire se la giovinezza riusciva ancora a provare un’emozione per questo mondo alterato. Per la sua marcescente bellezza.
(dal capitolo 8)
E di nuovo partimmo.
Sopra le punte dei cipressi, due nubi stuccate ritoccavano la monocromia dell’azzurro assoluto. Era l’icona della Provenza e l’archiviai a futura memoria.
Rigby è convinta che serva.
(dal capitolo IX)
Era l’ora buia del nuovo giorno. La luce blu dell’agenda accesa mi circondava d’ombre, dandomi però l’illusione di poterle controllare. In fondo, siamo gente cui piace illudersi che basti tenere gli occhi sugli eventi per avere potere sulla realtà.
La maniglia della porta, bloccata da una sedia, era immobile. Se appena si fosse mossa l’avrei vista. Se solo qualcosa fosse frusciato, là fuori, l’avrei distintamente sentito.
Del resto, tutto il nostro sapere è sempre un relitto della verità. Che approda a noi malandato e consunto perché ha viaggiato su un’onda lunga. Ogni flutto l’ha macerato e reso diverso da com’era prima del naufragio. Ma ci ostiniamo a dire “nave” ogni volta che rinveniamo un legno marcio su una spiaggia.
(dal capitolo 11)
Colonie di uccelli erano ovunque. Sui bastioni, sulle scale, sotto le tettoie. Facendo di quello scoglio sacro un immenso nido color calce.
(dal capitolo XIII)
Il quel sacrario di carta morente, la luna appendeva dappertutto i suoi bianchi origami di luce. La basilica, smangiata dai secoli e sostenuta dalle enormi costole dei barbacani, somigliava allo scheletro calcinato di una balena arenata. Le strade erano scandagliate da ronde di gatti, spavalde sentinelle a guardia di un tesoro di cui ignoravano il valore. Inconsapevoli della loro crudeltà, come della bellezza di una poesia di Baudelaire che cantava la loro grazia e di cui eran diventati templari. Ogni finestra accesa d’azzurro, con le sue irradiazioni angeliche di luce fredda, segnalava la stanza di un amanuense all’opera. Erano in molti a preferire quell’ora per lavorare. Gli uomini di Noel. Che recludevano i loro giorni per l’immortalità del libero pensiero. Mi piaceva, quella follia.
(dal capitolo XVI)
Torpida e alta, una città di antiche guglie traspariva dall’opalina foschia del giorno acerbo. L’auto era ferma in vista di Pamplona. E di un orizzonte annerito da rilievi ancora cupi.
Mi ero addormentata sulla strada per la Spagna. Non l’avrei forse ammesso con gli altri, ma il movimento era un viatico per affrontare il sonno. Un sopore alato che sottraeva all’infermità della notte.
Demo dormiva, rattrappito sul sedile; il gallese era fuori ad innaffiare un cespuglio.
Sentivo freddo. Ma lasciavo che mordesse. Era il mattino che addentava la carne dell’essere… dell’esserci di nuovo.
(dal capitolo 17)
Non ero in vena. Ero completamente lesso.
Avevo viaggiato talmente a lungo col culo incollato al sedile che sospettavo di averci le piaghe da decubito. Presto avrei scoperto che non si trattava soltanto di una condizione di spirito.
(dal capitolo XVII)
Arrivammo nell’ora senza ombra. Il paese dormiva un sonno biondo di luce. Il gallese sorrise: “Le conservate con cura le opere della concorrenza”. “Sono convinto che non ci renda più deboli”.
Eravamo fermi ad una stazione di servizio. Luther, appoggiato al cofano, stava aspettando che il distributore sputasse la sua carta di credito mentre io chiudevo il tappo del serbatoio.
“Credi in Dio?” chiese. Col tono con cui avrebbe detto: “Hai appetito?” o “Hai paura di viaggiare in aereo?” o “Sei mai stata in Africa?”…
No” risposi. Come avrei detto: “Non ho mai ucciso un essere vivente”, “Non ho mai fatto parte di movimenti eversivi”, “Non sono razzista”…
Forse perché avevo spesso avvertito l’astio dell’accusa verso chi non riesce a credere che in una vita soltanto. Come se questo non fosse già una condanna.
Invece, Luther si strinse nelle spalle. “Io non reggerei” disse con disarmante semplicità: “Senza fede non potrei sopravvivere”.
E, posando uno sguardo serio su di me:
“Devi essere una donna forte”.
Gli lasciai quella convinzione, replicando col silenzio.
(dal capitolo 18)
Certo, non si può mai dire l’ultima parola su una donna. Ma, ad essere sincero, non ce la vedevo proprio, la mia Rigby, incagliata tra la leva del cambio e la portiera sotto l’arrembaggio di Luther. Non era da lei farsi sbottonare da un maschio, gemendo nebbia sui cristalli.
(dal capitolo XVIII)
Il racconto del Cammino era scritto in un alfabeto di pietre. A volte integro, a volte tradotto in lacerti. Qui un monastero, lì un tempio, là un ostello. Segnavano la terra con l’inchiostro di un’ombra. Che è l’unico modo che resta alle cose per dire che non sono ancora scomparse.
(dal capitolo 19)
Nel mezzo del Pórtico de la Gloria c’era una colonna scolpita con l’immagine di San Giacomo. La tradizione, mi spiegò Luther, voleva che vi si appoggiasse la mano e si profferisse: “Io credo”. La pietra era, in quel punto, consunta. Consumata dall’impronta del medesimo gesto ripetuto per secoli. Imitandolo, toccai l’orma di pellegrini che avevano camminato fin lì per pronunciare quella frase. La tensione spirituale di migliaia di uomini aveva scavato la materia. Aveva creato un piccolo vuoto nell’atto di colmarne uno più grande.
(dal capitolo XIX)
Perché per quanto si possa palpitare per le doti di un uomo, alla fine sarà sempre qualcuno dei suoi dannati difetti a farci stendere sotto di lui.
(dal capitolo 21)
Era in momenti come quello che il vivere brado manifestava la sua qualità migliore. Una specie di esaltante leggerezza. Quando lo spargersi ovunque era bilanciato da un carico di impressioni imponderabili.