Recensioni e interviste “I giorni degli altri”

«Anche questa mattina scendo senza fretta, verso le cose di sempre, che diventano insolite se si ha il gusto dei dettagli». Bruna è un’insegnante di Lettere sulla soglia della pensione, desiderata come una liberazione dalla ruota inesorabile che ripropone ogni anno, dopo l’estate, il ritorno a scuola. Fin dalle prime pagine confessa: «Io possiedo la vocazione a ricordare, perché mi interesso alle vite degli altri. Mi piace osservare le persone, trovare le connessioni, scoprire l’intreccio dei destini».
Bruna incontra Ludovica per caso: un giorno piovoso prende sotto il proprio ombrello e accompagna a casa Tilde, anziana mamma di Maria Cecilia, sua vecchia compagna di liceo e zia di “Ludo”. La vecchia insegnante e la giovane botanica, da poco venuta a vivere dalla zia, diventano amiche grazie ad una sintonia che man mano emerge e supera le distanze generazionali. Amano gli stessi libri e gli stessi autori, i vini “da compagnia” e la natura. Ugualmente spontanee e complesse.
Su questa trama, impalpabile e solida, si dipana «I giorni degli altri» (Manni, 110 pp., 14 euro) di Paola Baratto, fresco di stampa. La scrittrice bresciana torna al romanzo dopo quattro raccolte di racconti. L’esperienza del testo breve ha lasciato un’impronta decisiva nel suo stile: accanto alla cura raffinata del lessico e all’armonia del fraseggio, che già le appartenevano, si è rafforzata un’essenzialità limpida, levigata da ogni eccedenza.

Paola Baratto: perché il ritorno al romanzo?

Il romanzo è il mio primo amore. Il soggetto era lì da tempo, avevo in mente il finale, cosa insolita per me, e avevo già scritto l’incipit, ma avevo bisogno di levigare alcune cose che non mi erano ancora chiare. Poi la vita stessa modifica i tuoi progetti. Avevo in mente questa storia di complicità fra donne, di una donna che aiuta l’altra a seguire un’idea, anche se sembra irrazionale.

Bruna dice: «A me è sempre piaciuto soffermarmi sugli aspetti marginali. Mi illudo che possano rivelare un codice per decifrare il disordine delle cose»…

È il carattere di Bruna: non è egocentrica ed è portata, anche per la sua professione, all’attenzione per le sensibilità degli altri, soprattutto delle sue studentesse. Il suo ex compagno Sergio la definiva “voglia di impicciarsi”. Ma non è così… Le sfumature a volte rivelano qualcosa che sfuggiva. Siamo portati a guardare le cose grandi, i grandi personaggi, invece io credo che i dettagli siano la metafora del mondo. Sono molto concentrata sui microcosmi. Anche a me, come a Bruna, piace andare al bar del quartiere e ascoltare le conversazioni.

Scrutare, ascoltare, sentire, entrare nei giorni degli altri è il ruolo dello scrittore?

È il mio modo di concepire la scrittura. E questo libro si può anche leggere come una rappresentazione della scrittura e del romanzo. Un po’ voyeuristica, forse. Ma credo si debba avere la capacità e l’attitudine a farsi coinvolgere, magari in qualcosa di irrazionale e di impossibile. Innamorarsi di un’idea impossibile e provare ad immaginarla.

Perno del romanzo un rapporto di amicizia. Bruna spiega: «Ci sono persone che cercano di conoscerti senza porre domande e non si fanno imbarazzare dai silenzi». Il silenzio conta più delle parole?

È difficile il silenzio. Siamo in un’epoca logorroica e tutti spesso cercano di prevaricare l’altro col racconto di se stessi. Le due protagoniste del mio romanzo si capiscono a prescindere dalle parole. Ludovica è schiva, si avvicina con prudenza, teme di essere giudicata e si ritrae. E questo incuriosisce Bruna, che le sta vicina anche quando non comprende. Se l’altro non vuol parlare, il silenzio è il modo per rispettarlo.

Ludovica sente in se stessa l’eco della storia di un antenato botanico. La sua ricerca resta però sospesa. E conclude: «In ogni caso ci sono cose che restano inspiegabili».

Un romanzo deve stimolare, senza dare troppe soluzioni. Ognuno si darà una propria spiegazione. Più che la soluzione dell’autore contano le reazioni dei lettori.

(Claudio Baroni – Giornale di Brescia)