Recensioni “Solo pioggia e jazz”
Paola Baratto “sa scrivere con nervosa e netta efficacia, reinventando molto suasivamente il dialogo, mai informativo soltanto, ma, al contrario, allusivo, emblematico. L’albergo, in questo modo, con i suoi personaggi meno e più importanti e decisivi, appare come una grandiosa allegoria della condizione umana quale è oggi, nel nostro tempo. L’invenzione ripropone altre allegorie (Thomas Mann, per esempio), ma con la straordinaria novità dell’attualizzazione”.
Giorgio Bárberi Squarotti
Poche frasi, due pennellate. E quel pontile lo avete davanti agli occhi. Un aggettivo e su quell’isola già ci siete approdati.
Ha una capacità evocativa notevole Paola Baratto. Essenziale, nitida, sicura. Dietro la prosa levigata si coglie il lavoro certosino, ma il lettore scivola leggero come sull’acqua del lago che circonda l’isolotto di Aldien. Terra incantata, albergo di charme. Anche se il proprietario, uno strano filosofo dai lunghi silenzi, non fa alcunché per compiacere l’ospite. Ognuno cerchi la sua dimensione, si ricavi lo spazio che vuole. E gestisca il suo tempo. Ecco: il tempo… Una sola condizione viene posta al visitatore: consegnare l’orologio; semplice gesto che provoca uno spaesamento non facile da gestire.
Sull’isolotto di Aldien giunge la protagonista: giornalista specializzata in guide per viaggiatori esigenti e in recensioni gastronomiche (passioni che i nostri lettori conoscono nell’autrice per i suoi articoli nelle pagine culturali del Giornale di Brescia). Arriva attratta dal fatto che l’ Auberge de l’Ennui (attenti ai nomi, nel libro hanno un ruolo tutto da meditare) abbia una clientela fedelissima. Perché? Eppure il lago non offre paesaggi suggestivi, la cucina è generosa ma ripetitiva e tutto si consuma, come diceva il titolo di un articolo dedicato al luogo, in «Solo pioggia e jazz». Lento e ripetitivo il ritmo della vita, dilatati spazi e tempi. Nulla sembra accadere… Eppure giunge, un giorno, uno strano viaggiatore ad offrire i prodotti della linea estetica Immortalia . E tutto non sarà più come prima. La protagonista avrebbe voluto lasciare quell’isolotto dopo una sola notte, è rimasta quasi per ignavia. Tornerà pochi mesi dopo, quando Aldien è diventata un centro di benessere dove ogni attimo e ogni angolo sono «ottimizzati» nel tentativo di sfuggire alla morsa del tempo e dei suoi effetti.
Le due parti del romanzo sono costruite con simmetrica e speculare scansione. Identici i luoghi, rovesciato tutto il resto. L’Immortalità ha preso il posto della Noia. E la nuova situazione crea più disagio che serenità. Non è un caso se il direttore del centro di benessere è un medico che un tempo (quanto lontano?) faceva da assistente ai torturatori. Non più di tanto velata è la critica al mondo dell’informazione, che si divide tra chi non coglie lo spessore della situazione e chi opportunisticamente vi aderisce e si adegua.
Suggestivo questo quarto romanzo che segna il ritorno di Paola Baratto al lavoro di lungo impegno. Lieve, essenziale e profondo. Continua la linea ideale già tracciata dai precedenti. Se «La cruna del lago» rifletteva sulla fine di una generazione che approdava traumaticamente al disincanto e «Finisterre» narrava di un mondo dove televisione e realtà sono ugualmente prigionieri del surreale, «Di carta e di luce» sembrava segnare la fine senza speranza, in un’Europa irrimediabilmente corrotta, di ogni possibilità di salvare la cultura, e forse anche la vita. Tutti questi temi riecheggiano in «Solo pioggia e jazz». Deliziosa l’idea di una biblioteca dove i libri sono sezionati, scomposti in singole pagine. Angosciante il montare della marea densa del lago che incancrenisce. E tutta «barattiana» è la terza parte, appena accennata, che lascia il romanzo aperto e il lettore – divertito, sorpreso? – alle prese con emblematici specchi per le allodole.
Claudio Baroni – Giornale di Brescia
Si intitola “Solo pioggia e jazz” il quinto romanzo di Paola Baratto, giovane scrittrice bresciana di talento.
Resta dai libri precedenti la domanda sul senso della vita, la ricerca di significati singola e collettiva, le atmosfere sospese tra realtà e sogno perché forse sta lì la risposta.
Ancora una volta le parole chiave sono l’acqua, il tempo, gli orizzonti.
Il viaggio, tema prezioso e ricorrente della sua produzione, si circoscrive qui in una situazione da “Montagna incantata” che sembra ferma e invece è un lungo percorso. In fondo ci sta un rifiuto dello strapotere volgare, che annulla l’uomo e impoverisce la natura.
Magda Biglia, Il Giorno
Un gioco di specchi, un apologo sul Tempo, uno studio musicale in cui prevale il pianissimo, un acquarello in cui il verde brillante si disfa e poi si cristallizza, un arpeggio delicato sulle sillabe di un dizionario intimo.
Ci sono molti modi – lirici – per dire dell’ultimo romanzo della scrittrice bresciana Paola Baratto, “Solo pioggia e jazz” (Manni editore, pagine 149, euro 15). La prosa, invece, dice di un’invenzione magica e realistica al tempo stesso, irta di citazioni e genuine invenzioni.
Un’autrice di guide turistico-gastronomiche (ricordate il film “Turista per caso”?) approda con intenti stroncatòri all’isolotto di Aldin, una lingua di terra, prati e alberi non più lunga di mezzo miglio in cui sta acquattato l’Auberge de l’Ennui (sì, avete letto bene: l’albergo della noia). Un buen retiro dall’aria rètro dove si celebrano riti strani: le luci bassissime inibiscono lo svago della lettura, il bureau sequestra garbatamente gli orologi degli ospiti, le pendole sono immobili da tempo immemorabile, le villeggianti si entusiasmano ad osservare un chimerico bradipo che impiega anche venti giorni per risalire un albero, la biblioteca è folta di libri senza dorso e copertina, di cui si consulta un foglio estraibile alla volta. Il sottofondo musicale è monocorde, il maltempo costante, la cucina ristretta nella gamma di proposte: “Solo pioggia e jazz” è il titolo di una precedente stroncatura toccata all’Auberge gestito dall’enigmatico e filosofico Malco Avan che – come tutto il suo innominato Paese – porta le tracce di recenti ferite, di tragedie storiche da poco consumate.
Al Sanatorio Internazionale Berghof di Davos Giovanni Castorp e gli altri ospiti andavano (ufficialmente) per guarire dal male del secolo, in fondo per sfuggire a quella che sarebbe diventata la guerra civile europea. Ottant’anni dopo, all’albergo della Noia, un’eterogenea combriccola si ritrova non si sa se per guarire o per ammalarsi, di certo per sfuggire alla tirannia del tempo sincopato, assillante, iperproduttivo di fuori. Un’atmosfera torpida, blande liturgie quotidiane, una lentezza suadente e morbida irretiscono anche la turista per caso, che finisce per smussare la stroncatura e divenire – come gli altri – un’assidua dell’Auberge de l’Ennui.
Sull’isolotto incombe però una sorte oscura che, nel secondo movimento (pardon: capitolo) si svela: sulle rive del lago sono arrivate nuovissime autostrade, l’Auberge ha lasciato il posto a una clinica salutistica in cui si rispecchiano, martellanti, i ritmi del tempo di fuori. Il benessere è inseguito in maniera ossessiva, programmando ogni istante degli ospiti (se vi coglierà una sensazione di dèja vu, e ripenserete alla vostra ultima vacanza in un villaggio o in una beauty farm, non sarà casuale).
Sparito Malco Avan, il nuovo demiurgo è un sinistro dottore dall’inquietante passato. A minare il progetto provvederà la natura, con la scomparsa delle piogge e una eutrofizzazione putrescente del lago, che assedierà l’isolotto (e la clinica) con tonnellate di alghe graveolenti.
Il terzo, rapidissimo tempo del romanzo non scioglie la suspance che aleggia sull’isolotto, ma – in un gioco dichiarato di specchi – mette il lettore di fronte al proprio senso del tempo. Come certi carillon dalla musica malinconica e dolce, qui aprendo la scatola ci si trova di fronte all’immagine riflessa di se stessi e a un marchingegno perfetto ordito da un’autrice melodica, un’orologiaia lieve, una scrittrice di valore.
(Massimo Tedeschi, Bresciaoggi)