Recensioni “Tra nevi ingenue”
È un piccolo, prezioso libro quello che pubblica oggi Paola Baratto: dodici racconti brevi, talora brevissimi, saldati da cinque testi poetici, che ne intervallano la successione.
Le nevi del titolo sono, nella definizione che ne viene data in uno dei racconti, quelle che nei quadri di Utrillo ricoprono le strade e le case di Montmartre, ma sono soprattutto quelle delle boules à neige, oggetto di antiche infanzie, ancora presente nella modernità kitsch delle bancarelle per turisti, in cui è possibile riconoscere il meccanismo narrativo che accomuna tutti i racconti.
I dodici protagonisti delle prose, uomini e donne per lo più colti nella solitudine di un momento o di un’intera esistenza, sono infatti descritti mentre , nel presente o nella rivisitazione memoriale, rievocano un luogo che prende vita proprio come quando si rovescia una di quelle boules: per Emilia è il terreno che calpestano le suole dei suoi scarponi nelle gite in montagna; per Bruno è un cortile che lo accoglieva nelle noiose domeniche dell’infanzia; per Isabella la terra straniera che le ha permesso, adolescente, per la breve durata di una vacanza studio, di cambiare identità; per Piero sono i suoni che lo riportano a luoghi forse conosciuti o forse solo immaginati; per Louis è il bistrot sotto casa; per Luigi sono i non-luoghi frequentati da chi, come lui, viaggia per lavoro; per Viola i molti posti dove avrebbe voluto fermarsi per sempre e che per sempre ha lasciato, ma che continua a rivisitare grazie a google maps; per Mara la solitudine delle brughiere; per Camilla il mistero dei chiostri; per Sergio il buen retiro della casa di campagna di un amico.
Ma a tenere assieme tutti i racconti è anche il gioco di rispecchiamento tra realtà e letteratura. Nel primo testo Vittoria non riesce a guardare i luoghi che va visitando se non attraverso le pagine di scrittori amati, quali Bufalino e Pavese, Arpino, Woolf, Proust, e ogni volta la delusione che nasce nel confrontare la realtà con la sua rappresentazione letteraria la spinge a ritornare all’infedele sincerità dei paesaggi di parole, per finire, grazie a loro, “fuori strada”. Il luogo dell’ultimo racconto è esso stesso un’invenzione letteraria: Gustavo, per sottrarsi all’invadenza di parenti ed amici, improvvisa, lì per lì, un impegno che lo costringe a recarsi in un inesistente Bellerofonte (mentre imbastisce la sua prima menzogna ha sotto gli occhi un libro di miti greci). Una fantasia che, nel regalargli ore di solitudine, gli consente di dedicarsi alla sua passione più grande, la lettura: e proprio gli scrittori che gli tengono compagnia, Dickens, Hugo, Wilde, Tomasi di Lampedusa, Simenon, Rigoni Stern, Biamonti, gli permettono, menzogna dopo menzogna, di perfezionare sempre più la finzione di quel luogo immaginario che, da “brogliaccio di paese senza una fisionomia ben definita”, assume i tratti dei luoghi (e dei personaggi) raccontati nei libri che va leggendo.
Altri luoghi affiorano nelle cinque gouaches, questo il termine posto in occhiello a introdurre le poesie: la voce, pur nell’assenza di un io grammaticale, è evidentemente quella dell’autrice che, manzonianamente, si ritaglia il proprio cantuccio per dipingere con tratti decisi, come vuole appunto la tecnica del guazzo, i propri luoghi della memoria – un tinello anni Settanta (così lo datano le tende verdi del balcone, la formica dell’arredo e la cera del pavimento); il parco di Marais Poitevin; una distesa di neve, tentata da passi sicuri ma tesi su una superficie scricchiolante; il mare di un’isola mediterranea; il tempo sospeso di una casa di vacanza.
In uno stile volutamente lieve, fatto di parole esatte e di silenzi, prose e versi offrono al lettore immagini rapide, chiamate a rappresentare (e a riscattare) i dolori e le gioie, le speranze e le delusioni che segnano la vita di persone qualunque. Immagini per lo più in dissolvenza, in perfetto equilibrio tra precisione e indeterminatezza, che sembrano nascere dallo stesso desiderio che muoveva Claude Monet (citato in epigrafe): “Io voglio dipingere l’aria nella quale si trovano il ponte, la casa, il battello. La bellezza dell’aria in cui sono, e questo non è altro che l’impossibile”.
(Anna Longoni – Autografo)
«Non riusciva ad immaginarlo senza il vento. Un fragoroso, costante sussurro che i più sordi chiamano silenzio». Mara ama gli altipiani e le brughiere, gli spazi sconfinati. Bruno, invece, rivive solo in quel «piccolo cortile di una casa di parenti», protetto da muri alti nel cuore della città. «Ne ricordava soprattutto il silenzio, come se fosse una fragranza mai più ritrovata». Negli orizzonti senza limite o in una «scatola segreta», bisogna saperlo sentire, il silenzio. O saperne cogliere le vibrazioni. Piero se lo chiede: si può vivere in un fruscio? «…come lo scorrere d’acque che levigano la pietra, i gargarismi mattutini di una moka, nei rintocchi dei campanacci s’un altipiano».
Io mi fermo qui. Mara, Bruno, Piero… in un attimo diventano compagni di un viaggio intenso e avvolgente. «Tra nevi ingenue» è il titolo della piccola e deliziosa raccolta di nuovi racconti che ci propone Paola Baratto. Una manciata di personaggi colti nel momento in cui pensano: «Io mi fermo qui». Ma forse, questa rischia di essere una definizione fuorviante per un libro che racchiude, come in «boule à neige», universi interi. Vittoria non insegue un solo luogo, ma tutti quelli che le rievocano i libri più cari: a Modica cercava la melagrana come la descrive Bufalino e «se passava dalle Langhe, non poteva fare a meno di scrutarvi un lembo di Pavese». Ed Emilia ama camminare in salita, passo dopo passo, non per vagare in un bosco – «c’è troppo, nel bosco» – e nemmeno per raggiungere una vetta, ma per sentire la terra, oltre il bosco e prima della cima, «nudità innocente e primigenia che calpestava con le sue dure suole».
Ambienti e mondi. Ci sono anche i luoghi definiti: la cascinetta in collina che ricorda l’infanzia e suscita la nostalgia a Sergio; o il bistrot che Louis vorrebbe diventasse come casa sua, al punto da potervi entrare in pantofole. Ma prevale l’indefinito, l’emblematico. Camilla si sente bene solo nei chiostri, antichi e misteriosi come quelli portoghesi, spagnoli o bretoni, ma anche in quelli piccoli e francescani. Luigi si trova a suo agio nei luoghi «impersonali», è il suo modo di sentire leggero il bagaglio dell’esistenza. Viola insegue su Google Maps «quegli angoli di mondo di cui conservava frammenti», luoghi visitati e subito lasciati. E Gustavo si inventa un proprio paese, sperduto sull’Appennino, dove rifugiarsi quando vuole sfuggire a qualcosa o qualcuno.
Dodici personaggi, altrettante storie, intercalati da cinque “gouache”, che sono quel che letteralmente promettono: schizzo con tempera densa, bozzetto preparatorio, appunti di luoghi e momenti che non sono ancora diventati nitidi e compiuti. «Tra le nevi ingenue di Utrillo» a Montmartre, cui il titolo si ispira.
Ricerca coerente. Come per «Giardini d’inverno» – il precedente libro della scrittrice – si può essere tentati di darne una lettura minimalista. A questo inviterebbe la dimensione del racconto, sempre più compatto nella forma e levigato nella scrittura. Ma non se ne coglierebbe la profondità. Ogni pagina è il distillato di una storia e suscita l’eco di un mondo. Paola Baratto continua coerentemente la propria ricerca letteraria e stilistica. Con i suoi personaggi che amano il silenzio, attraversano da soli la vita, sanno guardare dentro e fuori loro stessi, coglie intimamente lo spirito del tempo. Così come aveva fatto con i romanzi: «La cruna del lago» aveva interpretato il disincanto giovanile, «Di carta e di luce» (libro davvero profetico) era l’affresco della crisi culturale e sociale dell’Europa, «Solo pioggia e jazz» e «Carne della mia carne» e «Saluti dall’esilio» avevano messo a nudo le nevrosi dei nostri giorni.
Bellezza e semplicità. Nei personaggi e nei racconti di Paola Baratto ciascuno ritrova se stesso, o alcuni momenti di sé. A volte si ha la sensazione di essere «come dentro un acquario a guizzare sulla graniglia lustra di cera, acquattati sotto mobili di fòrmica celeste con lividi pastello e gommosi relitti…» E a volte, come Mara nella brughiera, si vorrebbe stare «di fronte ad una sovrastante impressione di permanenza, che renda più tangibile la natura relativa del nostro passaggio».
Silenzio? Solitudine? «C’è una bellezza che riesce ad essere sublime nella sua semplicità».
(Claudio Baroni – Giornale di Brescia)
Non solo l’arte, anche la poesia la trovi nelle piccole botteghe. Ed è una prosa squisitamente poetica quella di Paola Baratto, capace di costruire visioni, attraverso incastri lessicali a coda di rondine con i quali le parole, rigenerate dall’usura, acquistano una necessità insostituibile: sono come la tessera che il mosaicista inserisce con l’alta precisione paragonabile alla matematica certosina di una scrittura che è paziente manualità creativa.
Sono racconti brevissimi quelli contenuti nella sua ultima raccolta (“Tra nevi ingenue”, Manni, pp. 43, euro 12). Possiedono una cristallinità intatta, evitano qualsiasi incidenza narrativa, sono dei frame, dei fermo immagine, che raccontano il magma dei sentimenti, le emergenze del mondo interiore che accompagna la vita di ognuno di noi e che costituiscono il patrimonio della nostra individualità non ripetibile. Un tesoro di emozioni, di attimi che durano per l’eternità, che si originano visitando attraversando eleggendo luoghi identitari, che diventano specchio della nostra anima, riparo e sicurezza.
Ogni personaggio ha un suo grembo amniotico d’elezione, un suo parco protetto. C’è chi nel paesaggio urbano di Modica insegue l’immagine di una melagrana sulle tracce di una pagina di Bufalino – ricerca vana perché la potenza della metafora surclassa la realtà letterale -, chi libera la sua energia nell’arte del passo dentro un bosco e senza nessun secondo scopo (ricordava Mandel’stam, che un poeta non vuole altro paradiso fuori del vivere), chi conserva un reperto archeologico d’infanzia dentro un cortile o ricorda accordi e vibrazioni cardiache tra cieli nordici e canzoni, chi prova l’alta intensità e l’appartenenza esistenziale a scenari marginali, fuori dalle rotte maestre, chi trova rifugio in un bistrot, in un portico dove si è sedimentata la memoria, in un chiostro oppure in un borgo immaginario.
Paola Baratto ci consegna un atlante fuori sincrono di suggestioni, epifanie, ossessioni, di viaggi immobili e sogni migranti, di solitudini e silenzi, di incanti e nostalgie, che hanno l’allure di scorci pittorici volutamente impressionistici, minimalisti, ma che hanno il respiro dell’assoluto: non a caso il titolo del volumetto rimanda ad Utrillo e tra i racconti troviamo delle gouaches, dei guazzi lirici.
I luoghi, secondo l’autrice, sono interattivi e la loro percezione è sinestetica, allerta tutti i sensi. Bisogna avere orecchie per ascoltare la musica del tempo che si è fatto materia e verbo, occhi per vedere gli orizzonti lontani e i coni d’ombra, naso per assaporare i profumi della natura e delle storie. I luoghi attivano tutti i sensi e questo è il loro senso.
(Nino Dolfo – Corriere della Sera Brescia)
Dipingere l’aria? La bellezza dell’aria in cui sta il ponte, la casa, il battello… Impossibile. Lo dice (e, en plein air, lo contraddice) Monet, padre dell’impressionismo. Sembra proprio quest’impossibile ad animare la sfida creativa di Paola Baratto: cogliere il respiro delle cose, fissare l’istante perfetto e sospeso; dipingere l’aria, depurata dal peso del troppo, per consegnarla a una narrazione che ha la luce della rivelazione.
Piccole storie. Attimi di scoperta. Un suono, un odore, un segno: qualcosa ti parla e ti porta «Fuori strada»: dentro un sogno, un ricordo o in quella piazzetta parigina che – nel quadro di Utrillo – sta «Tra nevi ingenue». La nuova raccolta (Manni, 48 pagine, 12 euro) della scrittrice bresciana: 12 brevi racconti, 5 stacchi. Voci, luci, bagliori; foglie e piogge; un tinello, la casa, la neve che riluce mentre «si fa teso come un filo il silenzio». È «la lingua delle cose mute» a parlare, esatta e lieve come nei «Giardini d’inverno» (2014).
Di nuovo “altri mondi”, altri sguardi. Sei donne; sei uomini. Vittoria viaggia inseguendo raffronti: libri e luoghi. La Sicilia e Bufalino; cerca e osserva; guarda, ma non vede. Emilia oltre-passa il bosco (“C’è troppo, nel bosco”); vuole solo cielo e cime. Bruno torna al cortile dell’infanzia, al pino solitario. Piero ascolta: insegue tracce di suoni, echi, fruscii; i passi sulla ghiaia. Il bistrot, un pozzo col cipresso nel chiosco, la brughiera: spazi ventosi tra pietre erose, eriche e rovine. Solitudine e silenzio. Misura e sobrietà.
“C’è una bellezza che riesce ad essere sublime nella sua semplicità” dice Mara. La scrittura di Paola Baratto – con la forza di limpide parole essenziali – lo dimostra.
(Piera Maculotti – Bresciaoggi)
Brevi racconti (intervallati da alcune poesie) incentrati su atmosfere e suggestioni, tutti giocati sull’introspezione e sulle risonanze profonde dei fatti della vita. I personaggi compiono viaggi alla ricerca di un senso, in luoghi fisici oppure nel proprio io. Lo stile vive di un’originale essenzialità. (giudizio: tre stelline su quattro – BELLO).
(Roberto Carnero – Famiglia Cristiana)
C’è Vittoria che arriva a Modica sulle tracce di Gesualdo Bufalino. Vuole visitare il “paese in forma di melagrana spaccata“ descritto dall’amato scrittore siciliano che ha colpito la sua fantasia; c’è Louis che frequenta un bistrot cercando di sfuggire alla solitudine della vedovanza, rincuorato dall’ambiente che invece alla moglie era sembrato “sciatto e triste“; c’è Gustavo che s’è inventato un rifugio segreto e ne parla agli amici come di un piccolo eden immergendosi lentamente in una fantasia letteraria alla quale dà i contorni della realtà: esseri umani nel transito esistenziale che si appellano a cose minime per trovare consistenze affettive. Quasi una ricerca simbiotica che nella sua semplice emotività ha la forza di un’alba di luci soffuse “Tra nevi ingenue“ (Manni, 48 pagine, 12 euro).
Titolo suggestivo per i 12 brevi racconti (intercalati da 5 splendide poesie che sono altrettanti guazzi di luce spontanea) colmi d’una intensa “retrospettiva“ emozionale che coinvolge ognuno di noi in una sorta di prova di emersione dalle labilità che viviamo in forma di certezze. Paola Baratto, già con i personaggi dei suoi precedenti romanzi e racconti aveva dato prova di saper penetrare oscurità profonde, labirintiche e tutte le parole che in questi nuovi testi hanno liricità sinfonica e una facilità espressiva illuminante diventano immagine; così quello che racconta si materializza ai nostri occhi: le persone i luoghi, le ragioni, “ fino a quando l’istante perfetto/ arriva/rende ebbri/e come la nona onda si dissolve “.
La cosa più importante di questi racconti, è che la Baratto ha saputo cogliere l’interiorità che illude o devasta ognuno di noi. Con voce pacata, mai alterata dall’urgenza del dire, ci porta a specchiarci nelle sue parole, a ritrovare l’indole dispersa, sentimenti incartati, speranze appese e dimenticate in armadi invasi dalle tarme della dissoluzione, luoghi insoliti, portici, bistrot, brughiere in cui la nostalgia o l’abbandono diventano richiamo. Ma c’è anche una sottile presunzione in questi funamboli del viaggio nel disincanto del ricordo, tra lievi ossessioni e mistiche insorgenze. I personaggi della Baratto sono alla ricerca di qualcosa che sfugge a tutti. Forse non sanno bene nemmeno loro cosa sia: la serenità confusa che allieta i cuori o quella voglia di vita che dilapida i giorni come moneta scaduta senza mai occuparsi della validità del tempo? Tutto ciò può sconcertare, ma mi sembra la vera essenza di questo poema in prosa che la Baratto ha dedicato alla ricerca che anima ogni essere umano. Ricerca che è sinonimo di speranza di mondi nuovi, facce diverse, amori impossibili: tutte variazioni alla mediocrità stressante del lavoro e delle convenienze, calci alle regole che ci ingabbiano, alle motivazioni che imbrigliano i nostri slanci. Il messaggio è chiaro: non dobbiamo cedere alla nebbia insidiosa dell’indifferenza o della monotonia venefica che incupisce la vita. Dobbiamo essere sempre cellule attive, saltellanti, effervescenze briose del mattino. La ricerca è ciò che ci fortifica e qualunque sia la meta, non dobbiamo arrestarci alle soglie delle difficoltà. Anche quando un “Insetto invisibile“ ci punge, o un “Paesaggio senza figure“ ci sgomenta, non disarmiamo: solo rischiando l’impossibile, anche “tra nevi ingenue“, possiamo sfiorare l’eroismo e acciuffare la felicità.
(Francesco Mannoni – La Sicilia)
È la stessa voce che abbiamo ascoltato in “Giardini d’inverno”: anche in questo nuovo libro di Paola Baratto ricordi ed emozioni decantano nella misura del racconto breve, se mai più rarefatto qui, ancora più sobrio nei riferimenti, meno circostanziato, tanto da sconfinare spesso nei colori luminosi e intensi delle Gouache, divagazioni assorte che intervallano i brani proponendo momenti sospesi in una sorta di domestica eternità.
Ritroviamo personaggi – donne e uomini identificati solo dal nome – che acquistano la loro consistenza nel silenzio, e in quei suoni che lo perfezionano (il fruscio di uno “scorrere d’acque”, i “gargarismi mattutini d’una moka”, i “rintocchi dei campanacci su un altopiano”). Un silenzio come quello che si può godere nel piccolo cortile chiuso fra alti muri dove il bambino sfugge – le domeniche dedicate ai pranzi familiari – all’“insensato trattenersi degli adulti a tavola” e fa esperienza di quella solitudine che nell’infanzia non è mai assoluta, perché “si avverte che qualcuno ci sta osservando”, sempre, e persino il pino che sorge nel cortiletto, “nella sua maestosa indifferenza”, dà “l’impressione d’interessarsi a lui”.
Sono le “epifanie” che la noia – sentimento di cui si fa esperienza vivida nelle prime età della vita – sa regalare. Sono vissuti che echeggeranno poi nella vita adulta – ma mai immemore dell’infanzia trascorsa – in paesaggi dove si rivela “la nudità innocente e primigenia” che la montagna sa rivelare quando non ci si attarda nel bosco ma se ne esce, senza però farsi prendere dalla smania di raggiungere la vetta, e si indugia invece fra ghiaioni, fenditure di calcari e ondulazioni di graniti, gole di nevai… Ed è un’immagine, questa della neve, che ritorna: il rumore dei passi sul sentiero innevato “si fa teso come un filo di silenzio” (sembra di sentire le prime battute di “Des pas sur la neige” di Debussy) e sono “le nevi ingenue di Utrillo” – nei suoi ritratti del Cabaret Le lapin agile – a dare il titolo alla raccolta, ma era un “immobile paese innevato” anche l’aspetto che ogni giornata sembrava assumere quando da bambini si stava a giocare in casa, “come dentro un acquario”, “acquattati sotto mobili di formica celeste” (come il Benjamin di “Infanzia berlinese”: “Io li conoscevo uno per uno i nascondigli nell’appartamento…”).
È in questa dimensione appartata e silenziosa che i personaggi rivelano in pochi tratti la loro vicenda essenziale, lasciano trapelare il tratto che – con accentuazioni diverse, versioni variate di un’unica comune attitudine – rende uniche le loro vite, e ne fa vite a loro modo riuscite: L’arte del passo – cui è dedicato uno dei racconti – fa tutt’uno con un’arte di vivere (e di scrivere…) che coltiva tenacemente, non curandosi dell’incomprensione degli altri, la propensione alla ricerca del tempo perduto. Una ricerca che non sembra tuttavia aver la prospettiva d’un tempo ritrovato: le “tracce” di “echi” che non si cessa di seguire non portano a rivivere il passato dando la sensazione di una vittoria sul tempo. Ai protagonisti di questi racconti non è dato guadagnare – come a quello della Recherche – frammenti d’esistenza sottratti al tempo col risultato di sentirsi un essere – a sua volta – extratemporale. Questi personaggi si accontentano del “gratuito piacere d’accomodarsi dentro una risonanza conosciuta ma chiusa come un’ostrica”. E tuttavia è un accontentarsi che non si risolve nell’acquietamento: “per quanto non (ignorino) la lezione del disincanto, ogni volta ci (ricascano)”. L’assenza, per loro, resta tale, ma proprio in quanto assenza mantiene vivo il Desiderio: sa farsi segno d’un momento passato senza restituirlo con l’evidenza travolgente, la presentificazione sorprendente del sapore della madeleine. Non ne viene perciò l’impressione di essere – sia pur transitoriamente – indifferenti alla morte ma, al contrario, la percezione lucida dell’impermanenza: della “bellezza metamorfica “della montagna, ad esempio, dove la forma definitiva non alligna” e quella della solidità delle rocce è solo un’illusione, in realtà frutto di “fragorosi crolli”. Ed è tuttavia “una sovrastante impressione di permanenza” che quello stesso ambiente può darci, così rendendo “tangibile la natura relativa del nostro passaggio”.
Ci era parso di camminare sulle orme di Calvino, nei “Giardini d’inverno”. Sembra piuttosto Proust il richiamo costante in questa nuova prova, fin dal primo racconto: a Illiers – la Combray della Recherche – “il tintinnio della campanella sul portone sembra ancora quello “di quando il visitatore era Swann”, ma una volta entrata nel giardino e nella casa, la protagonista “si (sente) estranea, come se vi ritornasse dopo aver perso la memoria”.
Più dei miracoli della memoria involontaria, si direbbe tuttavia la perdita dell’aura a trasparire in questi racconti, nel “lavorio del rimpianto” che li permea ma non esclude il ricorso fiducioso alla capacità evocativa che possono offrire le nuove tecnologie (consci comunque che “la tecnologia non può tutto”). È dunque a Benjamin che accade di pensare, anche per il valore che si riconosce all’“oggetto buttato per errore o perduto per disattenzione”, o a quelli che si conservano, nella seconda casa magari, perché sono “testimonianze d’esistenze che non si riesce a tradire”. Un’aura che avvolge le cose ma anche certi luoghi – come un vecchio bistrot, che anche la copertina richiama, o una “vecchia dimora a mezza collina appartenuta a un amico – in equilibrio fra passato e presente, fra dimensione privata e pubblica, fra solitaria discrezione e aspirazione a uscire dalla propria riservatezza.
(Carlo Simoni – www.secondorizzonte.it)